Bossi digrigna di nuovo i denti, vorrebbe tornare a governare gli antichi furori, «Maroni ha troppe poltrone», «Maroni ha allontanato moltissimi nostri elettori», «Maroni ha trasformato gli ideali in burocrazia», «hanno distrutto la Lega», «io me la riprendo».
Un tempo fingevano di litigare, agitavano in pubblico un dualismo posticcio perché c’era sempre un Berlusconi da accalappiare, un D’Alema da irretire, un governo da salvare e uno da affondare, «Umberto dice così, ma Roberto mi ha assicurato che…». Sono noti i mille imbrogli che Bossi e Maroni hanno messo in piedi, dalla beffa a Segni «lumaca bavosa», al decreto Biondi, «non sapevo cosa firmavo», sino a tutta la messa in scena dei tradimenti, doppi, tripli, quadrupli: fingere di tradire per non tradire, e via imbrogliandosi negli imbrogli. Arte del bluff, sintonia e solidarietà totali. Maroni fece credere al Cavaliere d’essere pronto al tradimento dell’Umberto, e solo così lui e Bossi alla fine riuscirono a mettere nel sacco il più longevo dei politici d’Italia, a salvare la Lega dalle mire di un Berlusconi sempre incontenibile allora come oggi.
E poi ancora, ogni qual volta si presentava un problema, una grana esulcerante, un difetto elettorale, un mormorio malmostoso del popolo padano, ecco i due compari che si davano di gomito, s’impossessavano di un ruolo e di una sceneggiatura già scritta e sperimentata, sempre uguale a se stessa, l’uno contro l’altro, l’eroe e il suo antagonista, i duellanti. Ma quante volte è già accaduto? Teatri pieni e grande successo per quasi vent’anni, di fronte a un pubblico d’elettori che ogni volta riscopriva il senso della propria unità soltanto nella divergenza, nella doppia faccia della Lega, in quella baffuta e più composta del ministro dell’Interno, o in quella ruvida e carismatica, arruffata e sgrammaticata del capo e fondatore. E insomma dietro le loro baruffe di compari, recitate con la passione consumata d’attori e amici, si scorgeva sempre l’ombra della politica, il sospetto del calcolo, il dubbio che occultata dal gran strepitare ci fosse sempre la furbizia, la tattica, la manovra del gatto e della volpe.
Ma oggi non è più come un tempo, la Lega ha perso il potere, ha perso i voti, fatica a conquistare persino la fortezza di Treviso. Il partito del nativismo settentrionale ha insomma chiuso il suo ciclo storico e la sola rivoluzione che alla fine Bossi, Maroni e gli altri sono riusciti a portare a compimento è quella linguistica, lasciando a terra, non solo i cadaveri dei congiuntivi, ma un intero vocabolario politico affidato oggi a Beppe Grillo. Così i due vecchi amici precipitati nel sottoscala del Palazzo, nella riserva lombarda protetta dagli armigeri del Cavaliere, pur con tutto il peso degli anni sulle spalle, stavolta litigano sul serio, adesso che non c’è quasi più nulla da litigarsi: s’insultano e fanno tracimare ovunque un chiassoso e incontenibile disprezzo l’uno per l’altro, e senza nemmeno fare più notizia.
Come Napoleone in esilio a Sant’Elena, sconfitto e malato, anche Bossi coltiva minaccioso il sogno senile di ritornare capo della Lega, “ripensò le mobili tende/ e i percossi valli/ e il lampo de’ manipoli/ e l’onda dei cavalli/ e il concitato imperio/ e il celere ubbidir”, ma dietro le intemerate che furono scienza di calcolo e astuzia, oggi non si nasconde più la pratica maliziosa del potere bensì soltanto paure e incertezze di un vecchio. Mentre Maroni, gelido, si limita a segnalare l’irrilevanza di quell’Umberto che pure era per lui «come un fratello maggiore», il padre, il capo, il Senatùr, il compare di mille scorribande notturne passate a spartirsi manifesti abusivi negli anni Ottanta, “Ave osteria gratia plena/ ve lo daremo sulla schiena”, e poi ancora altre mille scorribande per i corridoi e i saloni dei Palazzi romani a spartirsi invece quote di potere, nei ministeri e nella Pubblica amministrazione, nelle aziende a partecipazione statale, nelle fondazioni bancarie, “Roma ladrona/ la Lega non perdona”.
Bossi&Maroni o Maroni&Bossi, che furono premiata ditta e strana coppia di nemici per la pelle, gli stessi che ora si contendono la leadership di niente, in una battaglia che odora soltanto di formalina, con il vecchio capo di tanti anni fa che rantola, trasognato, un ultimo ruggito, «devo ricostruire la Lega, l’hanno distrutta», e l’antico compare, Maroni, che invece maneggia l’odio e il rancore con i guanti della freddezza, lo colpisce con una scrollata di spalle, con il disprezzo trascurato che si deve alle cose che si scartano, che si vogliono annullare. E dunque fa per odio quello che avrebbe dovuto fare invece per contegnosità e senso della misura, Maroni ha privato Bossi del sontuoso appannaggio di ottocento mila euro all’anno che la Lega paga al vecchio re detronizzato, quel denaro che segna la distanza tra il giovane e sgangherato Bossi che arrivò in Parlamento più di vent’anni fa, e l’anziano e molto benestante uomo politico di oggi, quello che tiene famiglia e che, intervistato da Davide Vecchi sul Fatto Quotidiano, osserva con gli occhi umidi la foto dei figli, «loro non c’entravano niente in questa battaglia».
Così, aggredendo i denari, Maroni forse rivela il sottofondo più vero e familistico di tutta questa storia spelacchiata, fatta di elargizioni munifiche alla scuola privata della moglie di Bossi. Perché allora qualcosa da contendersi ancora c’è, per chi sa ben cercare tra le spoglie della Lega disfatta, e sono i fondi pubblici che il governo di Enrico Letta ha deciso di cancellare. Così nell’innaturale e straziante ritorno ai più bassi bassifondi della politica di un partito e di due ex potentissimi, che pure avevano avuto la loro fiera grandeur, e in questa loro resa finale, c’è l’Italia che non riesce mai a chiudere con dignità la storia di nessuno, spenna le vicende di ciascun protagonista fino alla decomposizione, senza mai sigillare, finire, superare.
Twitter: @SalvatoreMerlo