E se il Maracanà nuovo fiammante restasse improvvisamente senza elettricità l’anno prossimo nel bel mezzo del Mundial che dovrebbe celebrare il “miracolo” brasiliano? È un incubo che ossessiona da tempo Dilma Rousseff. E intanto spera che non succeda nulla del genere durante la Confederations cup, antipasto della grande festa del 2014. A Presidenta si trova alle prese con una crisi elettrica che rischia di trasformarsi in una catastrofe economica. L’endemica fame energetica s’è accoppiata a una eccezionale siccità che durante la stagione calda ha prosciugato le grandi dighe del paese e inaridito le centrali elettriche.
Ebbene sì, il gigantesco paese solcato dal Rio delle Amazzoni, il più grande fiume del mondo, la nuova potenza petrolifera che ha scoperto enormi giacimenti sottomarini tra Rio e San Paolo, la capitale della benzina ecologica, l’etanolo estratto dalla canna da zucchero, non ha abbastanza elettricità né abbastanza carburante. Petrobras, il monopolista parastatale, sta importando gas liquefatto in gran quantità, ma vede salire i costi e i conti finiscono in rosso, alla borsa non a caso le sue azioni sono in discesa.
Quella energetica non è la sola crisi che il colosso americano sta attraversando. C’è la bolla finanziaria, c’è una moneta che, guidata verso l’alto dal ministro dell’economia Guido Mantega (nato a Genova 64 anni fa), gran generale nella guerra delle valute, alimenta il rischio di recessione. E c’è, soprattutto, la gran frenata della crescita che ripropone gli incubi del passato quando il paese procedeva a singhiozzo con improvvisi balzi in avanti seguiti da altrettanto rapide cadute all’indietro.
Nella sua storia dall’indipendenza ad oggi, il Brasile è stato molto spesso sull’orlo della bancarotta, anche perché è uno dei paesi più sensibili ai mutamenti del mercato internazionale. Sembrava che fosse finita grazie a un robusto mercato interno capace di compensare l’andirivieni delle esportazioni e di impedire una relazione esclusiva con la Cina diventata ormai il principale partner. Ma le cose appaiono molto più complicate. Così anche tutti i grandi entusiasti, i mistici dei Brics, cominciano a togliersi i paraocchi.
È un gigante, il Brasile; è sempre “il paese del futuro” come dicono i suoi abitanti con quell’ironia che mitiga la loro vanagloria, però sembrava diventato il paese del presente. Invece, resta un’eterna promessa. È un colosso, ma dai piedi d’argilla; un po’ come, per molti versi, l’India. La debolezza delle infrastrutture li accomuna, al pari delle rigidità sociali, un mercato del lavoro anchilosato, una inefficienza incitata e una politica piena di roboanti promesse e di ben più dimesse realizzazioni.
Il Brasile ha subito un duro colpo dalla crisi del 2008-2009, ma si era ripreso prima e meglio del previsto. La presidenza Lula ha saputo iniettare orgoglio e fiducia, gli uomini d’affari lo sostenevano perché garantiva loro buoni profitti, le classi popolari ne avevano fatto un idolo e lui, abile navigatore, amato di una astuta saggezza proletaria, cercava di fare tutti contenti.
La moltiplicazione impressionante della classe media è il motore della crescita, come nella maggior parte del Brics (forse ad eccezione della Russia). Il reddito pro capite tocca i diecimila euro annui, ma la piramide statistica in Brasile viene divisa in cinque parti. Nel 2003, alla base c’erano 96 milioni di persone, metà della popolazione; nel 2009 sono scese a 73, nel 2014 arriveranno a 59 se il tasso di sviluppo continua allo stesso passo. I ricchi della casella A crescono da 13 a 20 fino a 31 milioni con una accelerazione notevole. Il fenomeno veramente importante, però, è la grande pancia, la classe B che passa da 66 a 95 milioni per arrivare a 113 milioni di persone l’anno prossimo.
Questa marcia trionfale, però, comincia a rallentare. Adesso la Banca mondiale parla di “growth trap” o meglio trappola del reddito medio, il fenomeno per cui un paese in via di sviluppo cresce moltissimo finché non arriva a un certo livello, oltre il quale rallenta e finisce per non fare mai il salto verso la piena maturità economica. Se la molla interna si blocca, anche il denaro che viene da fuori, cioè la grande molla esterna, si contrae. Un misto di scelte politiche fuori tempo e di investimenti mancati in alcuni settori chiave ha inaridito entrambe le fonti della crescita fin da quando Dilma come la chiamano in patria, è diventata presidente dal primo gennaio 2011.
Già un anno fa, i più attenti osservatori avevano notato che “il Brasile non è più la macchina dello sviluppo di un tempo – come ha scritto Forbes – I giorni della moneta facile e veloce sono andati”. Le ultime cifre mostrano un prodotto lordo che cresce solo dell’1,9%, con una inflazione al 6,6 e tassi d’interesse ledi al 10%. Il deficit estero è pari a tre punti di pil quello pubblico è del 2,7. La disoccupazione resta bassa (appena 5,8), ma il mercato del lavoro è particolarmente complesso, quindi anche le statistiche vanno prese con le molle.
Torna, così, l’eterna maledizione: l’incapacità di sfruttare in pieno le immense ricorse delle quali la natura ha dotato il Brasile, superiori a quelle di qualsiasi altro paese americano con l’eccezione degli Stati Uniti. Prendiamo il petrolio. Petrobras non ha le possibilità finanziarie e tecnologiche per mettere in produzione i nuovi giacimenti collocati ad alta profondità nell’oceano. Importa tutto (anche dall’Italia) ma i costi di estrazione rischiano di diventare primitivi. Le difficoltà energetiche ricadono con effetti a catena sulle miniere (un’industria energivora) che rappresentano una delle voci più importanti dell’export, per non parlare della soia le cui immense piantagioni sfamano la Cina.
A forza di parlare di miracoli, ci ha creduto anche chi sa bene che non si tratta di cogliere la manna dal cielo, ma di arrotolarsi le maniche. La crisi del 1999 ha portato il paese sull’orlo del default. È stata superata grazie alla coraggiosa scelta di svalutare la moneta invece di far la fine degli argentini orgogliosi e testardi i quali hanno tentato di mantenere la parità con il dollaro; ma anche, anzi forse soprattutto, alle riforme che Lula non ha rinnegato. Semmai ha cercato di attenuarne le conseguenze sulla distribuzione del reddito, riducendo il sempre altissimo tasso di povertà.
Il limite della sua presidenza, nell’insieme positiva, è di aver mancato la più difficile delle riforme strutturali, quella del mercato del lavoro. Luiz Inàcio da Silva, mitico leader sindacale, era l’unico ad avere il carisma oltre che l’esperienza per far ingoiare la pillola amara, ma indispensabile. Così non è stato, l’inflazione è rimasta alta, le rigidità che negli anni delle vacche grasse sembravano non ostacolare gli investimenti, a cominciare da quelli esteri, sono diventate potenti palle al piede. Secondo Tony Volpon, direttore esecutivo di Nomura lo sciopero degli investimenti si spiega solo con i problemi di competitività dell’industria e soprattutto della manifattura brasiliana e con l’alto costo del lavoro.
Dilma, che Lula chiamava “la compagna con un computer in mano” per la sua competenza tecnica, ha deluso. “Sono una donna dura circondata da ministri morbidi”, ha detto tempo fa. In realtà, è apparsa tentennante e confusa. E la sua aggressività non è proporzionale alla consistenza e all’efficacia delle decisioni. Il fattore politico resta decisivo in un paese dove la politica ha un ruolo predominante. Nulla si muove se non c’è il via libera del ministro che si ottiene per lo più grazie alle relazioni giuste. Anche il più importante uomo d’affari del mondo deve baciare le pantofole a Brasilia ogni volta che vuole trattare una operazione rilevante. È l’America Latina, nel bene e nel male. Che cambia, ma con il passo lungo della storiografia strutturalista molto popolare nelle università. La sorpresa maggiore l’hanno avuta gli americani più naif i quali, ignorando la storia, hanno creduto alla grande svolta basandosi sui parametri econometrici delle banche d’affari. Chi non si cura di tutto ciò è Mario Balotelli che ha scoperto Copacabana e il calcio da spiaggia. Speriamo che gli passi quando il gioco si farà duro.