Andrà a finire così. Che dopo un’estenuante trattativa fra il ministero della Giustizia e quello dell’Interno, il decreto legge per ridurre il sovraffollamento nelle carceri non si farà. Ancora una volta, come sempre. Nonostante gli annunci a effetto del governo e la condanna della Corte europea dei Diritti dell’uomo di Strasburgo (che non è un organo Ue) che attende l’Italia al varco. Le norme per favorire la liberazione anticipata di alcune migliaia di detenuti “meritevoli” e ampliare le misure alternative al carcere anche per i recidivi dovevano finire nel pacchetto del decreto del Fare sabato scorso. Rinviate, dovevano essere discusse nel Consiglio dei ministri di mercoledì. E invece forse la discussione slitterà a venerdi. Andrà a finire così. Che i garantisti urleranno allo scandalo e i giustizialisti affermeranno di aver difeso la certezza della pena. E magari poi si troverà una soluzione che, per non scontentare nessuno, si trasformerà in una nuova legge inutile, che non risolverà lo scandaloso e penoso sovfrallamento, arrivato al suo picco storico: 66mila detenuti in 206 penitenziari.
«Di notte faccio tre passi avanti e tre indietro. Il carcere sta dormendo, ignaro del mio tormento». Inizia così la poesia di Salvatore, che per ingannare il tempo sospeso – l’attesa delle lancette dell’orologio che si sono fermate, il turno che deve fare con i suoi compagni di cella per poter stare in piedi – scrive sul giornale dei detenuti della casa circondariale di Brescia. «È il peggiore istituto penitenziario d’Italia», afferma la storica militante del garantismo giudiziario, Rita Bernardini, dei Radicali italiani. E in effetti, chi entra nel carcere bresciano per la prima volta, ha la sensazione di aver preso un pugno nello stomaco. Nella casa circondariale di Canton Mombello, ci sono 90 celle distribuite su tre piani e due raggi, nei quali sono stipati 476 detenuti. Il doppio della capienza, o per meglio dire della soglia di tolleranza psico-fisica. Nelle celle più piccole, 8-9 metri quadrati, vivono, anzi sopravvivono 5-6 detenuti, mentre in quelle più grandi si arriva anche a 13-15 reclusi. Loro, nel primo sabato afoso che preannunciava una nuova estate senza ossigeno, lo sapevano già. E mentre il Consiglio dei ministri si stava riunendo per approvare il decreto del Fare e dimostrare al Paese intero che l’imperativo morale del governo delle larghe intese è quello di portare l’Italia fuori dalle sabbie mobili, i carcerati si divertivano a fare scommesse. Sicuri che non sarebbe stato approvato alcun decreto per ridurre il sovraffollamento.
«Nessun decreto, nessuna scarcerazione, ne sono più che certo», afferma un detenuto, mentre mi mostra uno dei 200 ricorsi inviati alla Corte europea dei Diritti dell’uomo dai detenuti del carcere di Brescia per ottenere un risarcimento a causa delle condizioni degradanti «che provocano disagi psico-fisici», come ha scritto nel modulo del suo ricorso. In questo piccolo istituto penitenziario, un panopticon ottocentesco inaugurato nel 1914, si trovano tutti i mali oscuri, tutte le patologie del sistema penitenziario, afflitto da anni da un sovraffollamento cronico, che ora ha raggiunto il suo picco: 66mila detenuti. Ventimila in più, secondo la versione ufficiale del ministero della Giustizia, trentamila in più secondo le associazioni che fanno un monitoraggio permanente dei diritti (negati) ai detenuti, come esempio l’associazione Antigone.
Alla rotonda, dove si snodano i corti bracci che portano verso le celle, non si respira alcun clima di attesa. Come se i detenuti lo avessero già intuito che a Roma, non ci si occuperà di loro. Come se i detenuti lo avessero già saputo, che il decreto annunciato con assertività dal ministro della Giustizia, Anna Maria Cancellieri, non sarebbe stato presentato. O quanto meno rinviato. O ancora modificato. Sebbene qualche giorno fa abbia dichiarato, dopo la reprimenda del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano: «Usciranno 3.500-4.000 detenuti». Consapevole che la condanna della Corte europea dei Diritti dell’uomo impone all’Italia di risolvere lo scandalo del sovraffollamento entro il maggio del 2014. E invece, evidentemente, le anime garantiste e giustizialiste presenti all’interno del governo Letta non hanno ancora trovato la sintesi. A dispetto del noto articolo 27 comma 3 della Costituzione italiana secondo cui «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». In ogni caso ai reclusi del carcere bresciano, il messaggio è arrivato forte e chiaro: «In Italia sono più importanti i diritti dei cani Beagle, che i nostri, lo può scrivere?», mi chiede con insistenza un marocchino, il braccio destro segnato da lesioni e diversi tagli, appena ricuciti. «Mi sono tagliato con delle lamette perché i miei compagni di cella volevano picchiarmi», afferma, per giustificarsi, anche se probabilmente non è vero: voleva solo fare un atto dimostrativo, una pratica molto diffusa fra i carcerati stranieri, soprattutto maghrebini, esasperati dalla detenzione. Lui ne approfitta subito per dire che così non va bene, che un Paese civile deve aiutare i giovani che sbagliano a redimersi, a reinserirsi nella società. Rajid ha solo 23 anni e ha imparato a memoria la storiella della riabilitazione, a cui il sistema penitenziario dovrebbe aspirare perché il carcere sia di qualche utilità, soprattutto verso chi commette reati lievi. Perché sa che è vero e, anche se sta recitando, e magari non ha alcun desiderio di cambiare vita, nessuno può contraddirlo.
«Dottoressa posso avere il cappello?», chiede alla comandante degli agenti penitenziari. «A patto che quando torni in sezione poi non lo chiedi più, altrimenti poi lo vogliono tutti e io non ne ho a sufficienza», risponde lei . Il cappello è un cappellino da basket, con la visiera per ripararsi dal sole ai passeggi, durante l’ora d’aria: due piccoli cortili di cemento in tutto per quasi 500 detenuti. Che possono uscire dalle celle due volte al giorno, alla mattina e al pomeriggio, per dividersi un po’ di aria. «Peccato che tre volte alla settimana si giochi a calcio, perché altri spazi non ce ne sono, e allora dobbiamo stare ai bordi, senza poter camminare», racconta un altro recluso. Oggi però non si gioca a calcio e allora nel primo pomeriggio, loro ruotano dentro a un piccolo cortile. Con un movimento circolare, tutti nella stessa direzione, per non scontrarsi. Davanti agli occhi vigili di un agente. «Ne abbiamo uno per piano, quando va bene, uno su due piani quando manca personale», mi fanno notare i poliziotti penitenziari, con una punta di disciplinata esasperazione.
Dentro le celle, i reclusi si adeguano alla mancanza di spazio, come possono. Alcuni seduti intorno a un piccolo tavolo, giocano a dama, altri stanno sdraiati, in branda. Nella sezione Nord, come in quella Sud del carcere, lo scenario è sempre uguale. Celle anguste, muri scrostati, macchie di umidità, infissi rugginosi, e sulle scale, fra un piano e l’ altro, gradini di cemento erosi dal tempo e dall’incuria. Brande a castello, in un cella ne conto tredici, e una di emergenza, nel caso arrivi un nuovo ospite, ovviamente non gradito. Dentro ogni cella, un bagno, con la doccia. Posta sopra un cesso alla turca e, nello spazio contiguo al bagno-doccia, un corridoio di mezzo metro che funziona da cucina, con una cassetta della frutta di plastica spaccata in due per rimediare uno scolapiatti. “Prima non avevamo neanche questo, solo docce comuni”, mi spiega uno di loro, quasi orgoglioso. Davanti allo sforzo di agenti, volontari, educatori che riescono attraverso un continuo dialogo con i carcerati a mantenere un clima pacifico, consapevoli di essere seduti su una polveriera, e l’ironica rassegnazione di detenuti che a volte si trasforma in disperazione autolesiva, ci si può solo fare una domanda. “Perché stanno qui? Perché se su 476 detenuti, quelli condannati sono solo 194, di cui 69 hanno condanne che non superano 18 mesi e 53 inferiori ai sei mesi (sic) , per reati lievi, non vengono applicate le misure alternative al carcere? Perché se gli altri, arrestati per reati contro il patrimonio, legati alla tossicodipendenza, sono in attesa di giudizio, non possono stare fuori ad aspettare la sentenza?” Uno scandalo nello scandalo del sovraffollamento, visto che il 40% dei detenuti che affollano le carceri italiane sono in attesa di giudizio. E non esiste sempre una valida ragione giudiziaria, o processuale, per tenerli in carcere. In queste ore si attende un provvedimento che se arriverà, sarà ancora una volta incapace di risolvere i problemi strutturali del sistema giudiziario e penitenziario, perchè poi fuori dal governo ci sono gli elettori abituati dalle anime più radicali del centrosinistra e del centrodestra a un giustizialismo d’accatto. E i detenuti lo sanno bene. Anche quelli che se si trovasse un lavoro, una dimora, potrebbero essere scarcerati.
Sia come sia, dei 476 detenuti a Brescia, 301 sono stranieri. Di 40 nazionalità diverse. E chi conosce il carcere sa bene cosa significhi. Ossia che ci sono i tunisini che non possono sopportare i marocchini, i rumeni che non tollerano gli albanesi solo per fare qualche esempio. E gli italiani, che si sentono circondati. Eppure tutti devono convivere su sei piani e due bracci di carcere. Perché davanti a un tale sovraffollamento saltano tutte le regole. E in una casa circondariale, che dovrebbe avere la funzione di gestire carcerati per i quali è stata prevista solo la sorveglianza di media sicurezza, si trova anche una sezione protetta, per detenuti che devono rimanere isolati. E dove in questi giorni si trova addirittura un presunto terrorista islamico, in attesa di essere trasferito. O meglio in attesa che si trovino mezzi e risorse per trasferirlo. Qui, a Brescia, si va avanti solo grazie alla generosità delle associazioni di volontariato. Piatti di plastica, posate, lenzuola, televisori e addirittura dei frigoriferi in cella: tutti privilegi che derivano da donazioni, perché l’amministrazione penitenziaria non ha sufficienti risorse per distribuire ciò che prevede il regolamento.
Anche se Rita Bernardini, che è andata a parlare con il ministro della Giustizia per capire se e come si risolverà lo scandalo del sovraffollamento, si chiede come mai il sistema penitenziario costi allo Stato quasi 3 miliardi di euro «Il doppio della Germania», afferma, tanto per fare il solito paragone con il solito virtuoso e scomodo Paese. Nella cella 38 e 36 al terzo piano del braccio Nord, si entra nel guinness dei primati: 15 detenuti in una cella di 20 metri quadri, ad occhio e croce. E così bisogna scendere giù nella sala colloqui, ridipinta di verde, dove alcuni detenuti oggi incontrano i loro familiari, per trovare uno spazio meno angoscioso E passare per una sala giochi, molto dignitosa, per i bambini in visita, oggi vuota: i giochi sparsi per terra provocano una sensazione di desolato abbandono. Quello di un carcere abbandonato a se stesso fra l’indifferenza dell’opinione pubblica e l’ignavia dello Stato. Qui, dove gli unici alberi sono quelli dipinti dai detenuti sulle pareti, perché le piante sono di plastica: non potrebbero vivere in un piano interrato, privo di luce. E così, sfumata anche l’ipotesi di trasferire alcuni ai detenuti nell’istituto di Cremona, dove è stata costruita una nuova sezione, che poi è stata dichiarata inagibile “perché ci pioveva dentro”, sottolinea con piglio combattivo la direttrice del carcere di Brescia, Francesca Gioieni, lei ha scritto ai vertici dell’amministrazione penitenziaria per chiarire che a Canton Monbello non si può più trasferire nessuno. Nella speranza di saper gestire questa scatola arrugginita di sardine, dove ogni settimana arrivano in media 6-10 nuovi detenuti. Certo, nel carcere esiste un’area trattamentale, dove è possibile seguire dei corsi scolastici, e di alfabetizzazione.
È vero, ci sono una piccola biblioteca, la redazione di un giornale interno, uno spazio per un corso di spinning e uno di yoga. D’accordo, alcuni detenuti lavorano (circa 40). E la direttrice, Francesca Gioeni, è riuscita con 700 euro – e il lavoro volontario di detenuti e agenti penitenziari – ad aprire una decorosa sezione a custodia attenuata, che è stata chiamata con spiccato senso dell’ironia,Vip, very ideal prison, dove lavorano e possono circolare liberamente 14 detenuti. Tutte queste lodevoli iniziative, però, vengono annullate dal sovraffollamento perché sono pochissimi, quelli che possono usufruirne. Per gli altri, la detenzione è solo una vessazione. Accettata con rassegnazione. E infatti quando cerco la via d’uscita, per lasciarmi alle spalle il carcere e le sue malattie, che nessuno è riuscito mai a curare, i detenuti mi salutano con una domanda retorica: «Scommettiamo che non si farà alcun decreto per ridurre il sovraffollamento?»
Twitter: @GiudiciCristina