SAN FRANCISCO – Mentre si profila la fusione tra Fiat e Chrysler, i lavoratori dell’azienda americana e del suo indotto, economisti e personalità del mondo del lavoro si interrogano sulle sue implicazioni per l’industria dell’auto Usa. Da più parti l’ulteriore passo di Fiat è visto positivamente, perché Fiat e il suo amministratore delegato Sergio Marchionne hanno risollevato un’azienda che nel 2009 era sull’orlo del fallimento, salvando migliaia di posti di lavoro.
«La Fiat ha reso Chrysler molto più forte», spiega Mark Thoma, professore di economia all’Universita’ dell’Oregon. «Questo rende più probabile che i posti di lavoro restino negli Stati Uniti, e quindi al momento non credo che i lavoratori abbiano molto da obiettare. La gente ha ormai capito che le proprietà delle aziende possono passare in mano straniera, ma in fondo il dato fondamentale è mantenere l’occupazione».
Alcuni operai di Chrysler, però, esprimono inquietudine per le decisioni a cui il nuovo assetto aziendale potrebbe portare e temono di dover pagare un conto troppo salato per le scarse vendite di Fiat in Europa.
Elisa Gurule, 34 anni, di Grosse Pointe Park alle porte di Detroit, è operaia nello stabilimento Sterling Heights. Assembla cinture di sicurezza e parabrezza sui modelli Dodge Avenger e Chrysler 200. Lavora, dice, 63 ore alla settimana, sei giorni su sette. Gurule si sente un po’ in apprensione per la fusione Fiat-Chrysler: «Francamente a molti di noi pare che Chrysler stia finanziando Fiat, che in Europa vende pochino a causa della crisi economica. È come se ci comprassero con i nostri stessi soldi. Non vorremmo che ci fossero ulteriori tagli ai nostri benefit, per esempio all’assistenza sanitaria per i pensionati, che già hanno dovuto rinunciare a molto per far fronte alla bancarotta del 2009. Poi, guardando un po’ a quello che è successo in Italia temiamo che l’azienda non ami sindacati troppo militanti, e se non accettiamo le sue condizioni ci possa mettere di fronte all’opzione di andare a produrre in altri Paesi dove costa meno».
Harley Shaiken, professore all’Università della California Berkeley ed esperto del mercato del lavoro, tende a ridimensionare le preoccupazioni di Garule e altri colleghi che condividono gli stessi timori. «Chrysler sta attraversando una robusta e sorprendente ripresa, e questo credo rifletta in modo significativo la partnership intrapresa con Fiat fino a questo momento», spiega Shaiken. «Fiat ha avuto la saggezza di fare tre cose. Primo, ha valorizzato e ispirato gli ingegneri della Chrysler. Secondo, ha portato una prospettiva nuova che si è materializzata in un ottimo marketing: si pensi al motto azzeccato “importato da Detroit”; insomma se la produzione a Detroit era in precedenza vista come un problema, con Fiat è diventato un grandissimo asset. Terzo, Fiat ha messo al servizio di Chrysler la sua tecnologia automobilistica e il suo design. Per cui certo – continua Shaiken – i lavoratori americani sono stati colpiti in modo così duro dalla recessione del 2008 che sono evidentemente preoccupati che qualcosa di simile possa accadere di nuovo. Ma credo che Fiat eviterà di creare tensioni, perché sa bene che potrebbero minare il successo ottenuto fino a questo momento in America».
Anche Roger Simmermaker, ingegnere elettronico, sindacalista e autore del libro How Americans Can Buy American (una guida per “consumatori patriottici”) non ritiene che al momento gli operai della Chrysler si debbano preoccupare troppo. «La carta “made in America” tira», dice. «Almeno al momento per Chrysler è importante mantenere i suoi stabilimenti negli Stati Uniti. Detto questo non bisogna dimenticare che un’azienda come Fiat non ha nessun vincolo di lealtà verso gli Stati Uniti, fa quello che le conviene. La proprietà non è americana, gli azionisti non sono solo americani, gli investitori idem. Per carità, tutto legittimo, ma noi come America non abbiamo alcun controllo. Se in futuro Fiat dovesse decidere di andare da un’altra parte noi non potremmo fare nulla per fermarla. Da tempo sostengo che non possiamo affermare di essere una nazione indipendente se la base della nostra industria manifatturiera è gestita da stranieri».
Fiat detiene il 58,5% di Chrysler dal 2009, quando l’azienda americana è uscita dalla bancarotta. Marchionne ha detto che intende completarne l’acquisto entro il 2013, forse già entro l’estate. Ma resta da sciogliere un nodo. La quota restante di Chrysler, il 41,5%, è al momento nelle mani della Veba, un trust controllato dal sindacato dei lavoratori del settore automobilistico Usa che in pratica paga i benefit tra cui l’assistenza sanitaria ai pensionati di Chrysler. Fiat ritiene che questo 41,5% valga circa due miliardi di dollari. Veba, invece, dice che il prezzo è almeno il doppio. Una volta che il tribunale del Delaware dirimerà la controversia (sentenza prevista a fine luglio), dovrebbe materializzarsi la fusione.
La Fiat, intanto, è in trattativa con un gruppo di banche, tra cui Bank of America, Deutsche Bank, Goldman Sachs e BNP Paribas per un finanziamento fino a 10 miliardi di dollari per fare sua la quota restante di Chrysler.