Con il libero scambio Ue-Usa vincono solo gli States

L’impatto sul Pil comunitario

Sarebbero gli Stati Uniti i veri «vincitori», in termini di vantaggi economici, di un accordo per il libero scambio con l’Ue. Proprio mentre è in corso il G8 in Irlanda del Nord – occasione per il lancio ufficiale delle trattative – a tracciare il quadro è stata la prestigiosa Bertelsmann Stiftung, una delle più importanti fondazioni tedesche, che ha presentato uno studio dell’Ifo, uno dei cinque grandi istituti economici della Germania. Un tempismo perfetto, in parallelo alle entusiastiche parole del presidente della Commissione Europea José Manuel Barroso. «Oggi, insieme con il presidente Obama – ha dichiarato a Lough Erne poco prima dell’avvio del G8 – daremo il via libera all’avvio dei negoziati di libero scambio tra Ue e Usa. Due anni fa in pochi avrebbero scommesso che l’Europa sarebbe stata in grado di lanciare i negoziati».

Da quello che molti hanno definito «la madre di tutti gli accordi commerciali» per le dimensioni delle economie di Ue e Usa (insieme hanno già scambi per 455 miliardi di euro l’anno), secondo la maggior parte degli analisti ci guadagnano entrambe le parti, visto che in totale, nello scenario di una piena nuova liberalizzazione, tra le due sponde dell’Atlantico, sorgerebbero due milioni di posti di lavoro a medio-lungo termine. In realtà, però, secondo lo studio Ifo il vantaggio sarebbe molto più per gli Stati Uniti che non per l’Ue. Partiamo da un primo dato: a lungo termine, un accordo che portasse alla piena liberalizzazione degli scambi (dunque andando al di là della semplice abolizione dei dazi), significherebbe per gli Stati Uniti un aumento del pil del 13,4%. Per l’Ue molto meno, in media, del 5%. Per la Germania, l’aumento di pil sarebbe del 4,7%, per la Francia (guarda caso la più ostile, soprattutto per timori legati allo strapotere di Hollywood a scapito del cinema europeo) solo del 2,6%. Quanto all’Italia, il vantaggio – sempre a lungo termine – sarebbe del 4,92%. A guadagnarci di più, nell’Unione sarebbero anzitutto la Gran Bretagna (+9,70%), la Svezia (+7,30%) e la Spagna (6,55%). 

Tradotto in posti di lavoro, la riduzione della disoccupazione sarebbe dello 0,57% per l’Italia, o, per citare un paese in cui questa piaga è ancora più grave, dello 0,62% in Spagna. Qui il vero “vincitore” è soprattutto il Regno Unito, dove la disoccupazione vedrebbe un calo dell’1,27%, contro -0,72% negli Usa. Sono, comunque, migliaia di posti di lavoro in più, per l’Italia circa 140.000 a medio-lungo termine (sempre nel caso di una piena liberalizzazione), in Germania 181.000, in Francia 121.000, in Gran Bretagna 400.000 e oltre 1,1 milioni negli Usa. Numeri da non disprezzare. Non a caso, presentando il rapporto, Aart De Geus, presidente della Bertelsmann Stiftung, ha affermato che «un accordo commerciale transatlantico sarebbe un importante strumento per più crescita e occupazione in Europa». Anche se, a dire il vero, i toni trionfalistici dei fautori dell’accordo avevano fatto pensare a ben altri scenari. Va detto, oltretutto, che, se alla fine l’accordo sarà al ribasso, limitandosi alla pura riduzione dei dazi, i vantaggi sarebbero molto inferiori. Per l’Italia, ad esempio, sarebbe di appena lo 0,28% del pil (per gli Usa dello 0,8%), mentre la disoccupazione nostrana scenderebbe di solo 0,15%, con aumento di appena 35.000 posti di lavoro. Anche se di questi tempi, naturalmente, non si butta niente.

Il rovescio della medaglia è, peraltro, per vari partner di Ue e Usa, che andrebbero a soffrire dell’accordo di libero scambio transatlantico. Colpiti, soprattutto nello scenario di una piena liberalizzazione, sarebbe anzitutto i due partner nordamericani degli Usa, e cioè il Canada (che avrebbe un impatto negativo per il 9,5% del pil) e il Messico (-7,2%). Soffrirebbero però anche l’Australia (-7,4%) e il Giappone (-5,9%), e poi vari paesi in via di sviluppo in Africa e in Asia centrale. C’è da giurare che saranno in molti, fuori da Usa e Ue, a sperare che alla fine europei e americani non riusciranno a mettersi d’accordo. La via del negoziato, del resto, sarà lunga e difficile, come si è visto venerdì a Lussemburgo con l’impuntatura della Francia sulla «eccezione culturale» a difesa soprattutto del cinema europeo. E che non è piaciuta affatto a Washington.
 

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