Sono pronto a scommettere che, con il ballottaggio di questa settimana, si chiuderà l’esperienza da sindaco di Gianni Alemanno. E qui lo scrivo senza nessuna coloritura di soddisfazione o auspicio, perché quello che mi interessa in questa sede non è fare pronostici, ma raccontare quella che mi sembra la vera notizia: ovvero la chiusura di un ciclo che va oltre la vicenda personale, la fine della più importante carriera postmissina sopravvissuta nel Pdl. Il che vuol dire che da Roma a Roma, se Alemanno perde, si chiude una pagina di storia che non riguarda solo lui.
Pochi lo hanno ricordato, in questi ultimi mesi, ma la carriera politica da protagonista di Silvio Berlusconi iniziò in un supermercato di Casalecchio del Reno, nel 1993, con una dichiarazione di voto in favore di Gianfranco Fini proprio per la corsa verso il Campidoglio. L’ex leader di An sfidava a in quei giorni – era il 23 novembre del 1993 – Francesco Rutelli. E quelle parole di Silvio Berlusconi, in una campagna in cui Alemanno mise in campo tutte le sue capacità organizzative in favore del suo leader, spinsero l’allora segretario del Msi ad un clamoroso 47%. «Quel giorno – ricordò per anni Teodoro Buontempo – sfiorammo la metà degli elettori con il solo simbolo della Fiamma!». Giorni ed emozioni lontane. Adesso Il Msi è stato disciolto, An è stata annessa nel Pdl, Futuro e libertà è stata liquidata dagli elettori, la Destra di Storace ha preso l’uno virgola, le ultradestre sono a percentuali da prefisso telefonico, solo il partito di Giorgia Meloni, che non a caso ha ripudiato il Caimano, resta in piedi. In venti anni Alemanno, che si sognava attore protagonista e possibile leader del Pdl, è diventato un panda inconsapevole, ovvero l’ultimo dei colonnelli di An che abbia conservato un ruolo di primo piano.
«Erano zucche e li ho trasformati in principi!», diceva nel 1999 Berlusconi degli ex missini, e ce l’aveva allora con l’Elefantino di Fini, e il suo tentativo di scavalcamento alle Europee in alleanza con Segni (andò malissimo con il sorpasso degli azzurri). Quell’insulto sulle zucche sembrava allora una delle tanti iperboli berlusconiane, An era un partito che viaggiava sopra 15%, aveva una struttura solidissima mentre Forza Italia era considerata di plastica: An teneva alle amministrative, mentre i berluscones tracollavano in ogni voto non politico. Adesso, nello spazio di quattro lustri e di quattro sindacature capitoline, tutto è cambiato. Fini è stato cacciato dal partito che aveva fondato con ignominia, gli ex aennini che non lo hanno seguito sono stati quasi tutti epurati e decimati con la composizione delle liste, Ignazio La Russa e Giorgia Meloni hanno fondato Fratelli d’Italia, e Alemanno è rimasto l’ultimo superstite, costretto a rincorrere dodici punti di distacco, e per la terza volta in svantaggio.
È il sindaco uscente che ha la percentuale più bassa da quando c’è l’elezione diretta. Ad azzopparlo non è stata la pregiudiziale antifascista, che non gli aveva impedito di prendere quasi cinquantamila voti diessini nel ballottaggio contro Rutelli nel 2008, ma il suo fallimento amministrativo. Ha contato molto di più la perfida parodia di “Aggiungi un posto all’Atac” (e relative inchieste su parentopoli) che le paginate dei giornali sui saluti romani o sulla croce celtica dell’amico caduto negli anni di piombo Paolo Di Nella. Molto di più la nuvola rimasta incompiuta per mancanza di fondi, le sparate sulla demolizione della teca di Meier, sul gran premio di automobilismo all’Eur (mai visto nemmeno in modellino) e la promessa di una Disneyland sandalona, un grandioso “parco giochi a tema sulla romanità” sempre annunciato e mai realizzato. Il problema di Alemanno non sono state le polemiche sul ventennio, i rapporti (tesi) con la comunità ebraica e il ritardo con la storia. Ma più semplicemente – come ha raccontato il migliore dei suoi ex assessori, Umberto Croppi (che non a caso oggi sostiene Ignazio Marino), il ritardo cronico agli appuntamenti della sua agenda da sindaco. Gli ex An non erano zucche nel 1999, come diceva Berlusconi, perché allora avevano alle spalle una solida cultura politica. Lo sono diventati adesso, ironia della sorte, dopo vent’anni di piccole abiure politiche in nome del potere. Alla fine è stato comunque un ventennio: quello di Berlusconi, però.