BERLINO – Erano le sei in punto del pomeriggio di martedì 4 giugno quando l’imputato Carsten S., durante il processo alla cellula neonazista di Monaco, ha parlato per la prima volta della pistola Česká 83. L’arma è ormai celebre in Germania per essere stata utilizzata in dieci omicidi con matrice xenofoba perpetrati dalla cellula terrorista Nationalistischer Untergrund (Nsu). Secondo gli inquirenti fu Carsten S. a fornire al trio terrorista armi e appoggio logistico. Dei sei imputati è l’unico che ha deciso di parlare e ha raccontato tutto dall’inizio: dall’omosessualità repressa, al bisogno di riconoscimento sociale al fascino «erotico» per gli anfibi e le divise.
Secondo quanto hanno riportato i media accreditati al processo (solo 50 tra tedeschi e internazionali), al momento della domanda esplicita sulla pistola il giudice Manfred Götz ha chiesto ripetutamente all’imputato se riusciva a mantenere ancora la concentrazione. Carsten S., con in mano i documenti del processo ha ammesso le accuse a malapena: «Non ho più un’immagine chiara di quegli eventi in testa, però dev’essere andata così», incalzato, ha poi confessato di aver procurato la pistola con silenziatore per «i due Uwe», sarebbe a dire Uwe Mundlos e Uwe Böhnhardt, i due integranti della cellula che si sono tolti la vita prima che la polizia li potesse arrestare. Nella sala, mentre l’imputato confessava, era presente anche Beate Zschäpe, la terza del gruppo, l’unica sopravvissuta e l’imputata principale nel processo di Monaco.
Carsten S. sostiene di non aver mai creduto che la pistola potesse essere usata veramente per uccidere persone. Pensava che «non sarebbe successo nulla di male». «Avevo una sensazione positiva riguardo ai tre membri del gruppo, mi sembrava impossibile che qualcosa di simile potesse accadere». Ha poi insistito sul fatto che eseguiva ordini, che svolgeva i compiti che gli venivano assegnati senza fare domande.
L’immagine di questo imputato con il volto interamente coperto da una felpa con un ampio cappuccio blu è già diventata l’emblema del processo di Monaco, il più grande in Germania per terrorismo politico dagli anni di piombo. Solo quando telecamere e macchine fotografiche abbandonano la sala, il 33enne originario di Jena si scopre il volto. Non lo fa per pudore, né per decisione propria: essendo entrato in un programma per collaboratori di giustizia della polizia federale, lo Stato si impegna a proteggere la sua identità. È sempre per questa ragione che parla solo del passato. Riguardo alla sua nuova vita in una nuova località non offre dettagli.
Il processo contro la cellula Nsu è iniziato circa un mese fa a Monaco, dopo una lunga attesa per i famigliari delle vittime e l’intera opinione pubblica che esige spiegazioni. La scoperta della cellula risale a ottobre 2011 quando la polizia fece irruzione nella roulotte di Böhnardt e Mundlos e li trovò morti. Dalle perquisizioni nei loro nascondigli emerse tanto la pistola come video e documenti che provavano la natura terrorista dei dieci omicidi irrisolti, e su cui la polizia seguiva piste totalmente sbagliate.
È la prima volta dall’inizio del processo che a parlare non sono tecnici della giustizia. Fino ad ora, il dibattimento si era incagliato sui tatticismi dei legali di Zschäpe e degli altri imputati per rallentarne al massimo lo svolgimento. Poco dopo l’ inizio del processo, gli avvocati della imputata principale avevano chiesto una nuova sospensione, ma i giudici sono finalmente riusciti a mantenere la dichiarazione di Carsten S. nel pomeriggio.
«Sono nato a Nuova Delhi il 6 febbraio del 1980», così è iniziato il lungo racconto di Carsten S. che ha ricordato un’infanzia nella città di Jena marcata da una psicosi della madre che scoppiava continuamente a piangere e dall’autorità del padre che terrorizzava i figli, lui e sua sorella, a tavola se solo osavano aprire bocca per parlare o sorridere. Un ambiente difficile soprattutto per un giovane di 13 anni che prendeva coscienza del fatto che «qualcosa in me non andava». Già dalle medie si sentiva attratto dai bambini e ciononostante sperava che gli sarebbe passato.
È una adolescenza complicata ma non drammatica. Ha portato a termine una formazione professionale ed infine si è trasferito a Düsseldorf, già come uomo omosessuale consapevole, dove si è successivamente laureato in psicologia sociale e ha iniziato a lavorare in centri che offrono assistenza agli omosessuali. Il suo ultimo impiego è stato in una struttura per malati di Aids.
Il suo avvicinamento all’estrema destra risale al 1997 in occasione di una manifestazione del partito neonazista Npd a Jena. Da subito, secondo quanto ha ammesso, mischiava il fascino per le uniformi e gli anfibi, che trovava «erotici», con la necessità di appartenere a un gruppo, di essere un Kammerade. Decise allora di rimanervi. È stato un altro degli imputati presenti in sala, Ralf Wohlleben, a reclutarlo per lavorare fianco a fianco per l’Nsu.
Insieme hanno cercato di rubare una moto «per il trio», hanno comprato telefoni cellulari e procurato documenti falsi. A un certo punto la richiesta è stata quella di procurare un’arma. Gli inquirenti hanno ricostruito che la consegna è avvenuta in un casolare abbandonato.
«Faccio fatica a ricordarmi quegli eventi», ha detto, «ricordo l’immagine di Wohlleben mentre avvitava il silenziatore indossando guanti di pelle». Si è anche detto sicuro di aver ricevuto denaro in cambio, ricorda di averlo avuto a casa nei giorni successivi. Non è in grado di confermare se si trattava di 2500 marchi tedeschi. La collaborazione con il gruppo è andata avanti fino al 2000 circa, quando l’omofobia di Wohlleben è diventata per lui insopportabile, e ha deciso di prendere le distanze.