Crolla Treviso, dove anche i comunisti votavano la Lega

La fine di una stagione politica

Qualcuno l’ha addirittura definita la fine di un impero. Quello leghista, che ha già perso guarnigioni, pezzi di territorio, militanti e credibilità. La Lega Nord, che aveva puntato sulla popolarità di Giancarlo Gentilini, per conservare il suo feudo più importante, ha dovuto alzare bandiera bianca. Al ballottaggio di Treviso, ha vinto il candidato democrat, l’avvocato cattolico Giovanni Manildo, con 11 punti di distacco: 55,5% contro il 44,5% ottenuto da Giancarlo Gentilini. E come avevamo (facilmente) intuito già al primo turno, è finita un’epoca. Lo ha riconosciuto anche il competitor leghista sconfitto: «E’ finita un’era», ha dichiarato l’ex sindaco sceriffo, che ha aggiunto: «Anche la Lega è finita. Abbiamo perso dappertutto». Sebbene per lui, l’umiliazione subita significhi, però, che «l’orda barbara della sinistra non si ferma mai».

Una battuta inappropriata, visto che dal dopoguerra l’unico sindaco di sinistra trevigiano è stato un socialdemocratico e il ventennio leghista è stato preceduto solo da giunte democristiane, fragili e instabili. Per spiegare l’esito del ballottaggio trevigiano, però, non si può solo ricorrere all’ormai vetusto schema di un Carroccio, diviso e dilaniato dagli scontri interni. Nonostante l’assenteismo, (ha votato solo il 58,61%) , i trevigiani probabilmente hanno voltato le spalle a un’idea di città, ripiegata su se stessa, che invece può reggere le sfide contemporanee di una società trasformata dalla recessione, solo se esce dall’isolamento in cui è rimasta confinata. E si inserisce in un’area urbana e metropolitana. O almeno questa è la parola d’ordine del centrosinistra, che ora amministra tutti i Comuni più importanti del Veneto, da Vicenza fino a Venezia, con la forza di un solo slogan: Smart City. Una visione e non più una missione, come invece pensava di avere la Liga veneta, che ha attraversato un’epoca, meno tormentata, seduta sul proprio benessere sociale ed economico della marca trevigiana, puntando soprattutto sull’identità. E anche sulla questione settentrionale, che la Lega, non va dimenticato, ha avuto il merito di fare entrare nell’agenda politica, anche se poi non è stata in grado di risolverla. Sicuramente da oggi inizia la vera resa dei conti. Verticale, fra base e vertici del Carroccio, e trasversale, fra i maroniani e i pretoriani di Bossi, che chiederanno la testa del sindaco scaligero, presidente della Liga veneta, Flavio Tosi, l’unico rimasto a guidare un capoluogo leghista. Forse  dunque, davanti alla clamorosa sconfitta del Comune di Treviso, è fuorviante fermarsi ai problemi interni della Lega Nord. Sarebbe come guardare il mondo dal buco della serratura, visto che il Carroccio, e soprattutto la Liga veneta, aveva già dimostrato di aver perso la sua capacità di intercettare il voto di opinione al Nord, sin dalle elezioni politiche in febbraio.

No, il voto trevigiano va interpretato anche come una richiesta di rinnovamento. Innanzitutto generazionale. Lo ha ammesso anche il sindaco uscente, Gian Paolo Gobbo, che è stato l’artefice della crescita politica della personalità, talvolta rozza, ma dirimente e popolare, del sindaco sceriffo, Genty, a cui in queste ore, anche i detrattori stanno concedendo l’onore delle armi. «Io non ero d’accordo a candidare Gentilini», spiega Gobbo a Linkiesta, soprattutto per ragioni anagrafiche: «i cittadini chiedevano rinnovamento e arriva un momento in cui una classe dirigente deve saper fare un passo indietro». Dovrà passare un po’ di tempo, prima di poter dare un giudizio lucido su meriti e demeriti della Liga veneta a Treviso. E non è importante, ora, entrare nelle vicende locali della città: dal piano urbanistico alle infrastrutture mancate, dal problema annoso della mobilità alle controverse operazioni immobiliari. E forse non è neanche determinante capire se i leghisti abbiano fallito perché non hanno rappresentato alcuna discontinuità politica con l’egemonia democristiana. Altrimenti non si spiegherebbe perché il centrosinistra ha vinto quasi ovunque, anche a Brescia contro il Pdl. Con un candidato, che non ha certo le caratteristiche di rottamatore: Emilio Del Bono, ex parlamentare dell’Ulivo, per di più trombato alle scorse amministrative, che ha vinto nella città della Leonessa con un distacco anche per lui rilevante: 56,5% contro il 43,5% ottenuto dal sindaco uscente, Adriano Paroli, sostenuto dal Pdl. Dopo che il movimento dell’antipolitica dei grillini avevano registrato un flop al primo turno. E ci è riuscito puntando solo su due argomenti: l’emergenza ecologica e il declino economico.

In realtà in questa tornata amministrativa da Roma a Treviso, è stata bocciata una classe dirigente, leghista e pidiellina, considerata incapace di fare riforme, inadatta a dare risposte concrete alla crisi, percepita come una casta da una bassa percentuale di cittadini, che ancora si reca alle urne. E affida le sue fievoli speranze di nuovo a un centrosinistra, che riesce a vincere soprattutto grazie al sostegno delle liste civiche. E alla presenza di volti nuovi. Treviso infatti è stata espugnata perché, come ha spiegato a Linkiesta il presidente della fondazione Benetton, Domenico Luciani, che nel ’94 si è candidato e poi ha perso contro Giancarlo Gentilini, «forse i cittadini hanno capito che, richiudendosi a riccio, dentro le mura storiche del proprio campanilismo, hanno perso il treno verso la modernità». E allora deve essere proprio vero che a scegliere il nuovo sindaco è stata semplicemente una considerazione anagrafica. E lo capiremo appena avremo a disposizione i dati dei flussi elettorali. Probabilmente se si vuole smettere di vivere nell’angoscioso presente e sognare di avere un futuro, non ci si può più affidare ai campanilismi, alla retorica delle radici, a una vecchia classe dirigente. E soprattutto a un anziano signore, che pronuncia slogan invecchiati, come ha fatto Giancarlo Gentilini durante la campagna elettorale. Perché Venezia, è a venti chilometri da Treviso, e finché c’erano i leghisti, in pochi se ne sono accorti.  

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