La rivolta di piazza Taksim a Istanbul somiglia ogni giorno di più a quella di piazza Tienanmen nel 1989. Alla richiesta di maggiore rappresentanza politica, il governo cinese reagì con violenza, facendo nascere la nuova Cina nel sangue. A Tienanmen è nato questo strano concetto di economia di mercato e dittatura. Il premier turco Recep Tayyip Erdogan ha sempre saputo che una società in pieno boom come quella turca prima o poi si sarebbe opposta alle sue riforme politiche – ora deve decidere se reprimere il dissenso e prendere la “via cinese”, o aprire la Turchia alla democrazia.
Le rivoluzioni non si lasciano prevedere: non sisa quando esploderanno. Si può prevedere però se esploderanno. Nel caso della rivolta di Taksim e del dissenso turco, era chiaro da tempo che qualcosa sarebbe avvenuto. Da un paio d’anni l’opinione più diffusa tra i cittadini secolarizzati di Istanbul era che “Erdogan si sta spingendo troppo in là con le riforme” e “la gente prima o poi si ribellerà”. Per il resto, ancora un paio di settimane fa – l’ultima volta che sono stato a Istanbul – piazza Taksim non aveva granché di diverso dal solito: era piena di gente, da giovani a uomini d’affari, ma non c’erano segni di protesta, sit-in, slogan cantati.
La rivolta turca è segno del contrasto tra benessere economico e chiusura politica: la crescita porta con se pretese democratiche – sempre che la crescita non sia appannaggio di un’elite. L’economia turca negli ultimi vent’anni si è sviluppata a una media del 4,2% l’anno, e da quando Erdogan è al potere (2002) la crescita è stata del 5,4%. Viaggiare per la Turchia verso la fine degli anni Duemila era come entrare in una versione live di un libro sul libero mercato di Daniel Yergin: c’erano file di persone fuori dalle banche, mercati fiorenti, e autostrade piene di camion, per quanto lo stile di guida non sembrava essere cambiato molto con l’industrializzazione.
La politica di Erdogan è stata chiusa al punto di far scoppiare una rivolta? A ogni buon conto, sì. Il problema è sempre lo stesso: democrazia significa “la maggioranza decide per tutti con lo strumento della maggioranza”. Erdogan ha scelto un’interpretazione più semplice: “la maggioranza decide”, con corollario della possibilità di riorganizzare lo stato a proprio piacimento. È da questo che nascono le derive dittatoriali delle democrazie, le quali si trasformano tecnicamente in fascismi. In particolare, se la Turchia ritiene di essere un “paese europeo”, con questa trasformazione sta adottando una forma europea di fascismo: conquista il potere attraverso mezzi democratici, e meno con i colpi di stato (sono una specialità sudamericana, d’ispirazione spagnola).
Se “la maggioranza decide”, il governo turco si è arrogato il potere d’introdurre piani ambiziosi che sono stati accompagnati dall’arresto di quantità record di giornalisti e studenti, e dalla reintroduzione di regole islamiche negli spazi pubblici, alle volte con obbligo di rispetto. Erdogan ha introdotto una politica aperta di odio verso Israele al mero scopo di conquistare consensi nel mondo arabo, perdendo circa mezzo milione di ingressi turistici israeliani l’anno. Il tocco finale è il progetto di una nuova costituzione con un “presidenzialismo” alla russa, con potere di nomina di rappresentanti giudiziari senza controllo parlamentare. La gente di Istanbul si è ribellata quando Erdogan non ha fatto nulla per arrestare il taglio degli alberi del parco Gezi a Taksim. Al posto degli alberi, si vuole costruire un centro commerciale e una moschea, quelli cioè che sembrerebbero essere i due nuovi capisaldi della cultura turca. Gezi park è un bel parco, generalmente vuoto e assonnato, ma la sua difesa è valsa bene come pretesto per la ribellione.
Se Erdogan sapeva che una rivolta sarebbe esplosa prima o poi, si è preparato in tempo: ha indebolito l’unica forza in grado di opporsi al suo potere: i militari. L’esercito turco è considerato da alcuni il “guardiano della democrazia” e abitualmente interviene a ritmo decennale per preservarla: è successo nel 1960, 1971, 1980 e 1997. L’edizione del 2000-2010 è stata cancellata a causa dell’arresto in massa dei top-performer: nel settembre 2012 oltre trecento ufficiali sono stati condannati per complotto, e un centinaio sono attualmente sotto processo per il colpo del 1997.
Se davvero i trecento stavano tramando un colpo di stato, è giusto che siano stati condannati. Il problema di Erdogan, però, è che stavolta la situazione è diversa. Stavolta non sono i militari a difendere la democrazia, ma è la gente a pretendere maggior rappresentanza. Se i militari risponderanno agli ordini di massacrare la folla, significa che la trasformazione dello stato si è compiuta. Ciò non cancellerà però un fatto: rispetto all’ultimo colpo di stato nel 1997, il Pil pro capite (a parità di potere d’acquisto) si è triplicato, arrivando a circa 18.000 dollari.
Per questo, i turchi non hanno più bisogno dei militari che dicano loro di cosa hanno bisogno: lo chiedono da soli. Se Erdogan fa il cinese, potrebbe nascere nel sangue una forma islamica di dittatura e libero mercato. Sarebbe come la Cina, con l’Islam al posto del comunismo. Speriamo che non ne sia sparso altro – ma le date sono una condanna: 24 anni fa, e una manciata di giorni, ci furono i massacri di Tienanmen.