Qualcosa non torna. Di tutta la vicenda dei derivati italiani sottoscritti dal Tesoro, c’è qualcosa che non collima. Le rivelazioni di Andrea Greco su la Repubblica, riprese immediatamente dal Financial Times che ha ottenuto anch’esso i dossier, lasciano aperti troppi interrogativi. Primo fra tutti, la tempistica. Secondo, la metodologia. Terzo, l’entità della notizia. Occorre però andare con ordine, per capire cosa è successo e cosa sta accadendo.
La tempistica è quantomeno dubbia. Il Tesoro, tanto in Italia così come in tutto il mondo conosciuto, ha fra le armi a sua disposizione la possibilità di aprire swap con banche e istituzioni finanziarie al fine di diluire la spesa, i pagamenti degli interessi sul debito e le altre incombenze. Si è sempre fatto e sempre si farà. Nello specifico, negli ultimi 20 anni l’Italia ha usato diversi stratagemmi contabili per alleviare il proprio debito pubblico, e le spese che esso comporta. Lo sapeva bene il presidente della Banca centrale europea (Bce) Mario Draghi, dal 1991 al 2001 direttore generale del Tesoro e dal 2002 al 2005 vicepresidente e managing director di Goldman Sachs International.
Per stessa ammissione dell’ex sottosegretario all’Istruzione Marco Rossi Doria, che l’anno scorso ha tenuto un’audizione alla Camera sul tema, i contratti di derivati sottoscritti dall’Italia non sono pochi. Anzi. «Ad oggi il nozionale complessivo di strumenti derivati a copertura di debito emessi dalla Repubblica italiana ammonta a circa 160 miliardi di euro, a fronte di titoli in circolazione, al 31 gennaio 2012, per 1.624 miliardi di euro», ha spiegato Rossi Doria nel 2012. Fra questi, troviamo diverse classi di derivati. Il sottosegretario ha infatti ricordato che di questi «circa 100 miliardi sono interest rate swap, 36 miliardi cross currency swap, 20 swaption e 3,5 miliardi degli swap ex ISPA». Ma perché Rossi Doria ha parlato dei derivati dell’Italia? Perché fra 2011 e 2012 il Tesoro ha chiuso due interest rate swap e due swaption con Morgan Stanley, pagando 2,567 miliardi di euro alla banca statunitense. Apriti cielo. Tutto regolare, però. Merito della clausola Additional termination event (Ate), che da la facoltà alle parti che hanno sottoscritto il contratto di derivati di uscire dalla posizione in via anticipata, nel caso avvenga un determinato evento. In sostanza, una clausola di risoluzione del contratto. Nel caso di Morgan Stanley, ha spiegato Rossi Doria, «tale clausola, risalente alla data di stipula del contratto, nel 1994, era unica e non presente in nessun altro contratto quadro vigente tra il Ministero e le sue controparti, e non è stato possibile, nel corso degli ultimi anni, rinegoziare la stessa». Non era così.
Come avevano spiegato nell’aprile 2012 fonti bancarie a Linkiesta, c’erano almeno altre cinque banche con contratti di derivati sottoscritti con l’Italia contenenti la clausola Ate: BNP Paribas, Deutsche Bank, Dexia, Intesa Sanpaolo, UniCredit. Una prassi, diceva un trader della divisione Fixed Income di una delle maggiori banche italiane a Linkiesta. «È quasi sicuro che siano presenti le clausole Ate perché fino al 2006 i contratti su derivati fra istituzionali e governativi avevano una duration maggiore, anche oltre i 30 anni». E l’introduzione di queste clausole serve a tutelare sia l’emittente del contratto, sia la controparte, in questo caso lo Stato italiano. Per chiudere questi contratti, all’aprile 2012, sarebbero serviti 8,9 miliardi di euro. Cifra che oggi, nel caso i derivati siano gli stessi, è diminuita. Ma vale la pena ricordare che l’Italia ha anche guadagnato dai derivati sottoscritti.
Nel corso del 2011 Eurostat ha passato al vaglio le operazioni sul debito pubblico italiano fra anni Novanta e Duemila. E tutto sommato non è andata male. Nel 1998 la Repubblica italiana ha guadagnato l’equivalente di 3 miliardi di euro, mentre tra il 1999 e il 2001 le entrate provenienti da derivati creditizi sono state pari a 1,048 miliardi. Conto in verde anche per il 2002, con 1,924 miliardi di euro, e per il 2003 e 2004, rispettivamente 705 e 929 milioni di euro. L’ultimo anno in positivo fu il 2005, con 1,016 miliardi di euro, poi un lento declino: meno 163 milioni di euro nel 2006, meno 337 milioni nel 2007, meno 392 milioni nel 2008. Poi, il silenzio. Fino a oggi. Quindi, perché proprio ora emerge tutto, dopo che fra l’altro era già emerso?
Oltre alla tempistica, c’è la metodologia. La mail del Financial Times, con dicitura “FT Exclusive”, è stata inviata nel cuore della notte, alle 2.13. Orario inusuale, dato il periodo di calma piatta e l’assenza di novità. C’è però un particolare che non deve essere sottovalutato. Il presidente del Consiglio Enrico Letta dovrà fronteggiare i leader Ue al Consiglio europeo a partire da domani. Farlo con questa patata bollente, non sarà facile. E nn sarà nemmeno semplice negoziare l’erogazione di nuovi fondi Ue, anche dopo la chiusura della procedura d’infrazione per deficit eccessivo.
Infine, sono tanti i dubbi sull’entità della notizia. Come già spiegato, gli strumenti finanziari, come i derivati, sono sempre stati usati dai governi. Sempre. Punto. È un deal che fa comodo sia allo Stato, che può alleggerire il peso dei propri debiti, sia alla controparte, che si garantisce un flusso di capitali praticamente sicuro. Il 25 giugno Maria Cannata, direttore generale del Debito pubblico del Tesoro, ha spiegato che sta tornando l’appetito degli investitori internazionali sull’Italia. Suggestivo che proprio oggi, cioè stanotte, siano state pubblicate queste rivelazioni.
Il Ministero dell’Economia e delle Finanze ha diffuso una nota in cui spiega la propria posizione in merito a quanto scritto su la Repubblica e Financial Times
TESORO: NON ESISTE ALCUN PERICOLO PER I CONTI DELLO STATO
In merito alle illazioni avanzate da alcune testate, il Dipartimento del Tesoro del Ministero dell’Economia e delle Finanze fornisce precisazioni e chiarimenti utili a comprendere che gli strumenti di protezione dal rischio di interesse oggi gestiti non comportano perdite.
1. Il Tesoro fornisce regolarmente ogni sei mesi alla Corte dei Conti tutta la documentazione relativa alle operazioni condotte in strumenti di finanza derivata. La Corte dei Conti nel mese di marzo 2013, tramite la Guardia di Finanza, ha chiesto la documentazione inerente alla sola attività di chiusura di un gruppo consistente di operazioni con Morgan Stanley. A fronte di tale richiesta, il Tesoro ha fornito tutta la documentazione richiesta, secondo tempi concordati con la Guardia di Finanza stessa, per ciascuna operazione, inclusi i contratti pregressi dai quali ciascuna operazione ha avuto origine (copia di ciascun contratto e relativo decreto ministeriale con il quale ogni singola operazione è stata formalmente approvata) corredata da una circostanziata relazione esplicativa.
2. La filosofia di fondo dell’operatività in derivati della Repubblica si basa su criteri ispirati al perseguimento dell’interesse dello Stato, mirando alla protezione dai rischi di mercato, primi fra tutti il rischio di cambio e il rischio di tasso di interesse. Con riferimento in particolare a quest’ultimo, l’attività in derivati è stata mirata a conseguire l’allungamento della duration complessiva del debito, al fine di proteggere da un eventuale rialzo dei tassi, pagando tasso fisso e ricevendo variabile. Tale funzione prettamente assicurativa è stata perseguita attraverso IRS (interest rate swap) e opzioni su tassi di interesse (swaption), fissando tassi a lungo termine che, al momento della sottoscrizione, risultavano storicamente ai minimi per la scadenza cui si riferivano. Bloccare attraverso derivati un tasso fisso “a pagare” in contropartita di un tasso variabile “a ricevere” rappresenta una protezione verso futuri shock sui tassi di interesse, situazione peraltro sperimentata dallo Stato italiano a più riprese e con un’evidenza particolarmente significativa a seguito della grave crisi monetaria e finanziaria del 1992. Infatti, se in simili frangenti si devono emettere titoli a breve termine, il rischio di aumento del tasso pagato sul debito all’atto del rinnovo dei titoli in scadenza viene neutralizzato, per la parte coperta, dalla gamba “a ricevere” dello swap (a tasso variabile) ed il costo effettivo viene limitato al corrispettivo tasso fisso “a pagare” nello swap. Come ogni assicurazione, peraltro, ove l’evento verso il quale ci si protegge non si verifichi, si sopporta un costo, che rimane tuttavia giustificato dalla priorità attribuita alla prevenzione di gravi conseguenze in caso di scenari avversi. Il valore di mercato degli strumenti derivati in uno specifico momento, il cosiddetto mark to market, non è in nessun caso assimilabile a una perdita realizzata. Esclusivamente in presenza di specifiche clausole le controparti possono reciprocamente esigerne la corresponsione secondo le modalità previste nei contratti
3. È assolutamente priva di ogni fondamento l’ipotesi che la Repubblica Italiana abbia utilizzato i derivati alla fine degli anni Novanta per creare le condizioni richieste per l’entrata nell’euro. Le operazioni poste in essere all’epoca sono state sempre registrate correttamente secondo una prassi consolidata, nel rispetto dei principi contabili sia nazionali che europei. I controlli effettuati sistematicamente dall’Eurostat a far tempo dalla seconda metà degli anni Novanta, anche quelli conseguenti all’introduzione in più fasi di nuove linee guida sugli strumenti finanziari derivati, hanno sempre confermato la regolarità della contabilizzazione di queste operazioni.