I contratti di apprendistato sono poche centinaia di migliaia in tutta Italia e sono quasi esclusivamente per i giovani non–laureati. Il successo della riforma Fornero si misurerà largamente sul successo del rilancio del contratto di apprendistato che dovrà essere il contratto di ingresso per tutti, compresi i laureati. Far diventare l’apprendistato il contratto di ingresso dei laureati è la sfida per risollevare le sorti della riforma.
L’apprendistato non decolla; in Veneto e Lombardia, le due regioni su cui ci sono i dati disponibili, i contratti di apprendistato sono in un trend discendente del 5% annuo invariato dopo la riforma Fornero. Eppure ci sarebbero tutte le condizioni affinché le imprese utilizzassero questo contratto.
Il problema più urgente delle imprese è ridurre il costo del lavoro, ma l’apprendistato è già un contratto con notevoli benefici in termini di contributi (ridotti a zero per i primi tre anni in imprese con meno di 9 dipendenti) e di salario (due qualifiche inferiori alla categoria di riferimento). Inoltre molte imprese hanno oggi il problema di convertire i contratti di collaborazione continuativa o le partita IVA rese più difficili da giustificare dalla riforma Fornero: l’apprendistato sarebbe il contratto ideale di destinazione per i giovani sotto i 30 anni di età in precedenza impiegati impropriamente con contratti di lavoro autonomo.
Perché dunque l’apprendistato non riparte?
Le ragioni sono in parte legate in parte alla percezione sbagliata che si ha del contratto – indubbiamente alimentata da alcune previsioni equivoche della legge – in parte alla complessità del recesso dal rapporto, se le cose non funzionano.
La legge n. 167/2001 ha espressamente qualificato l’apprendistato come un contratto a tempo indeterminato, abbandonando la tradizionale qualificazione come contratto a termine. Questa scelta regolativa, seppur condivisibile perché disegna un orizzonte di potenziale continuità del rapporto di lavoro anche dopo il periodo di formazione dell’apprendista, ha però ingenerato nei datori di lavoro il timore che anche all’apprendista finisca così per essere garantita la tutela alla stabilità del rapporto dettata dall’art. 18 dello Statuto dei lavori. In realtà la legge consente che il datore di lavoro possa liberamente recedere dal contratto di apprendistato al momento della scadenza del periodo di formazione, la cui durata per la forma di apprendistato più diffusa (quella c.d. professionalizzante o di mestiere) deve esser dettata dagli accordi interconfederali o dai contratti collettivi di categoria, ma non può per legge superare i 3 anni.
Anche gli imprenditori più informati e più avvezzi ai formalismi giuridici, che non sono caduti nell’equivoco di considerare l’apprendistato come un contratto “stabile”, lamentano che in ogni caso il contratto è egualmente eccessivamente “rigido”, perché l’apprendista è sì liberamente licenziabile ma soltanto al termine del periodo di formazione, mentre è la stessa legge a prevedere esplicitamente che per tutta la durata della formazione l’apprendista possa essere licenziato solo per giusta causa e giustificato motivo. Come detto, la durata della formazione è dettata dalle parti sociali, che l’hanno quasi sempre (comprensibilmente) determinata nella misura massima consentita dalla legge: tre anni.
Gran parte delle imprese naviga a vista nella tempesta della crisi e, pertanto, giudica difficilmente sostenibile l’obbligo di garantire la stabilità del rapporto dell’apprendista per un così lungo lasso temporale; se l’impresa si venisse imprevedibilmente a trovare in una difficile situazione e interrompesse il rapporto dell’apprendista, dovrebbe adottare un licenziamento comprovandone il giustificato motivo, pagare il ticket INPS introdotto dall’art. 2 della Riforma Fornero e, laddove in un giudizio il motivo addotto venisse ritenuto infondato, correrebbe il rischio di vedersi reintegrato in servizio l’apprendista come lavoratore a tempo indeterminato.
Il timore di questi rischi (non certamente trascurabili) del contratto di apprendistato lo fa muovere in tandem con il contratto a tempo indeterminato e con esso seguire un trend discendente. A ciò si aggiunga che l’apprendistato è tradizionalmente proprio del settore manifatturiero e proprio delle aziende medio grandi. Entrambi il settore manifatturiero e la dimensione media di impresa sono in calo. Parte del calo dell’apprendistato è quindi strutturale.
Eppure servirebbero veramente dei minimi interventi di semplificazione sulla legge n. 167/2011 per incentivare le imprese all’assunzione di giovani con contratti di apprendistato.
Quanto alla complessità della disciplina del licenziamento, sarebbe opportuno prevedere che in caso di licenziamento dell’apprendista prima del termine del periodo di formazione non trovi applicazione neppure nelle grandi imprese le tutele di cui all’art. 18 dello statuto dei lavoratori, ma soltanto la tutela applicabile nelle aziende sino a 15 dipendenti: il risarcimento del danno da 2,5 a 6 mensilità. Inoltre, si dovrebbe anche prevedere l’inapplicabilità a questi licenziamenti del ticket INPS.
Questa modifica dovrebbe essere accompagnata sia dalla previsione di oneri semplificati di formazione professionale anche esclusivamente on the job, sia dalla cancellazione dei limiti numerici degli apprendisti che possono essere assunti da un’impresa.
Le piccole imprese italiane sono spaventate dagli adempimenti burocratici e dalla documentazione che il contratto di apprendistato comporta. L’elaborazione del piano di formazione individuale e il rispetto degli oneri di formazione strutturata appaiono alle piccole imprese ostacoli insormontabili. Sebbene la legge del 2011 abbia eliminato per l’apprendistato professionalizzante la necessità di formazione esterna resa secondo le previsioni delle leggi regionali, tuttavia questo tipo di apprendistato rimane condizionato agli oneri di formazione dettati dai contratti collettivi. Sarebbe assai più semplice dettare per legge dei requisiti minimali della formazione professionale che deve essere impartita, lasciando alle parti sociali la facoltà di intervenire ad integrazione delle previsioni della legge per quei settori ed imprese coperti dalla contrattazione collettiva.
Seppur sia innegabile che molte imprese utilizzano l’apprendistato soltanto perché costa meno, tuttavia l’eccezionalità dell’attuale situazione di disoccupazione giovanile rende auspicabile che siano tolti tutti i limiti quantitativi nel ricorso ai contratti di apprendistato, almeno per un periodo di due anni. Nessun vincolo significa anche nessun problema di interpretazione delle norme.
Ancora oggi il calo più vistoso del contratto di apprendistato si è avuto nel II trimestre 2012 (-12% sull’anno precedente) prima dell’entrata in vigore della riforma Fornero ma subito dopo che sono scaduti i termini per aprire contratti secondo il vecchio ordinamento (25 aprile 2012). Gli imprenditori hanno comprensibilmente atteso nel limbo dell’incertezza legislativa. Questo ci indica che spesso l’ostacolo principale all’occupazione sta nella percezione distorta da una lunga tradizione di complicazioni normative insostenibili per le piccole aziende tipiche dell’economia italiana.
Nell’emergenza di questi anni fa premio su tutto la semplicità. Il contratto di apprendistato è stato cambiato più volte. Le norme sono tuttora confuse. La restituzione dei contributi sui Contratti Formazione Lavoro è ancora nella memoria di molti imprenditori. Solo una radicale semplificazione può ridare vita ad un contratto su cui un’intera riforma del lavoro si è basata per far ripartire l’occupazione.