Il primo passo verso la guarigione è una giusta diagnosi. Così anche per uscire dalla crisi dell’euro, per decidere che direzione prendere e che politiche adottare è fondamentale identificare e interpretare correttamente le cause della crisi. Lo spiegano Charles Wyplosz (Graduate Institute di Ginevra) e Richard Portes (London Business School) al Festival dell’Economia di Trento. Peccato che i due economisti, a distanza di poche ore, ci propongano una “diagnosi giusta” (Wyplosz) e una “interpretazione corretta” (Portes) piuttosto differenti.
Nella sua lecture Wyplosz spiega come l’attuale crisi sia la conseguenza di debiti pubblici troppo elevati. In alcuni casi, questi debiti sono il prodotto dell’irresponsabilità dei paesi che nel corso degli ultimi quarant’anni hanno accumulato deficit (si pensi per esempio all’Italia). In altri – come nei casi spagnolo e irlandese – la causa è il salvataggio delle banche in seguito ad un periodo di crescita insostenibile e a una bolla immobiliare.
Il problema, dunque, è l’assenza di disciplina fiscale. I paesi periferici hanno “cicalato” per molti anni; la mancanza di veri vincoli ha portato all’attuale situazione insostenibile. Sebbene il trattato di Maastricht avesse stabilito un tetto massimo di deficit e di debito, non vi è mai stato un sistema di sanzioni credibile.
Questa tesi viene stravolta durante la lezione di Richard Portes, che avanza un’altra interpretazione: la causa della crisi sono i flussi di capitale. Il problema dell’eurozona non è quindi l’irresponsabilità fiscale (la Grecia è considerata un’eccezione), ammonisce Portes, bensì il fatto che, negli anni passati, proprio grazie all’unione monetaria e alla deregolamentazione finanziaria, ci sono stati importanti flussi di capitale dalla Francia e dalla Germania verso i paesi periferici, soprattutto Spagna e Irlanda. Gli influssi di capitale sono confluiti principalmente nel settore non commerciabile dell’economia, alimentando il boom del settore delle costruzioni.
Questi flussi non hanno portato ad aumenti di produttività, ma hanno prodotto un aumento sproporzionato dei crediti, causando corrispondenti deficit nella bilancia corrente. Secondo l’economista americano, quindi, alla base della crisi dell’eurozona non ci sono i deficit eccessivi, bensì i prestiti concessi in modo incauto dai paesi “core” ai Paesi periferici.
I due economisti hanno però un punto su cui concordano: a differenza di quanto viene spesso raccontato, né l’uno né l’altro identificano la perdita di competitività dei paesi periferici come un grosso problema. Wyplosz la descrive come “una fantasia comune”, mentre Portes spiega che se i deficit della bilancia corrente fossero stati causati dalla mancanza di competitività la crescita in questi Paesi sarebbe stata bassa, mentre in realtà la crescita è stata rapida, la domanda interna alta e i deficit causati da basso risparmio. Non solo, anche dopo la crisi, le esportazioni spagnole e irlandesi non solo non sono diminuite, ma anzi dal 2010 sono cresciute a un tasso annuo del 10 per cento.
Questi punti di vista di due economisti sicuramente competenti sembrano essere una piccola rappresentazione di quello che è il vero problema (politico) attuale: due realtà convinte di aver trovato “la diagnosi giusta”, che faticano ad abbandonare le loro posizioni a favore di un accordo.
E se da un lato si parla di una Germania che «non accetterà di pagare il conto per il debito di altri paesi» (Wyplosz), dall’altro si descrivono «Paesi creditori con banche che hanno scioccamente concesso prestiti ai paesi periferici per poi trasferire i costi fiscali di questi errori sui contribuenti degli stati debitori, il tutto con un atteggiamento di superiorità morale – che ipocrisia!» (Portes).
Ma a sorpresa, nonostante due analisi differenti, le conclusioni portano ad almeno un punto in comune: la necessità di una unione bancaria, con un sistema di supervisione condiviso che garantisca il rispetto delle regole, e all’identificazione del principale problema, la Germania. «Quindi, come convincere i tedeschi?», chiede un giovane al prof Portes: «Boy, I wish I knew».