Nello scarno comunicato della Procura di Napoli che segue le verifiche delle Fiamme Gialle nei club di mezza serie A – tra cui Milan, Napoli, Inter, Roma, Fiorentina, Juventus, Parma, Lazio – si parla di «meccanismi di aggiramento delle regole di tassazione dei contratti, prescelti per sottrarre al fisco ingenti quantità di denaro», riferiti alle attività dei procuratori Alejandro Mazzoni e Alessandro Moggi. La Guardia di finanza mira infatti a gettare luce sull’attività di intermediazione dei due agenti in relazione a presunti profili di evasione fiscale. Sergio Sirabella, counsel presso lo Studio Legalitax e docente al master in Diritto e fisco dello sport presso la business school del Sole 24 Ore, spiega a Linkiesta quali sono gli artifici più utilizzati da procuratori, calciatori e società per pagare meno tasse, o non pagarle proprio.
I due filoni dell’inchiesta riguardano l’Iva e i diritti d’immagine. In che modo si abbatte l’imponibile nell’uno e nell’altro caso?
Una premessa: l’indagine prende le mosse da alcune segnalazioni anonime in seguito a una verifica nei confronti del Napoli Calcio da parte della Guardia di Finanza. Funziona così: quando i club pagano lo stipendio al calciatore dovrebbero emettere una ritenuta d’acconto, ma invece di corrispondere 100 ne corrispondono soltanto 50. Con gli altri 50 pagano il procuratore attraverso un cotnratto di intermediazione con cui gli agenti forniscono i loro servizi alle società. A sua volta il procuratore li retrocede tramite conti esteri direttamente ai calciatori. Ciò che ha insospettito i pm sono i costi dei procuratori, non realmente parametrati alla loro attività. A loro volta le squadre detraggono l’Iva dalle fatture emesse dai procuratori sportivi. L’Agenzia delle entrate sostiene che gli emolumenti corrisposti all’agente sono in realtà dei fringe benefit che finisconoal calciatore.
Quali strumenti hanno gli inqurenti per dimostrare che effettivamente c’è stata evasione fiscale?
Per poter dimostrare questa architettura fiscale è necessario trovare una prova tangibile come un bonifico o un trasferimento di denaro del procuratore al calciatore. Se la transazione avviene estero su estero è molto difficile riuscire ad ottenere informazioni utili.
Per quanto riguarda il filone dei diritti d’immagine?
Generalmente i calciatori cedono il loro diritto d’immagine a una propria società denominata star company, residente in uno Stato a bassa tassazione e dove vige il segreto bancario. In alcuni casi sono anche detenute da trust, ciò nonostante sono i calciatori stessi a controllare la maggioranza della società che ne gestisce l’immagine. In questo caso lo strumento del trust, perfettamente lecito, serve a eludere le imposte. Le azioni delle star company solitamente sono al portatore, quindi è difficile capire chi è il legittimo proprietario se non quando vengono dichiarate in assemblea, e possono a loro volta essere intestate a società fiduciarie. Per questo è molto complesso riuscire a provare che gli agenti in realtà non sono strapagati per il loro servizio, ma perché retrocedono successivamente i compensi ai loro assistiti.
Se la star company è domiciliata all’estero si crea un problema di doppia imposizione?
Si può creare un problema di doppia imposizione che può essere eliminato mediante l’applicazione di trattati contro la doppia imposizione. Facciamo un esempio: quando David Beckham, che non era residente in Italia, venne al Milan per giocare da gennaio a giugno, su tutti i contratti di sfruttamento dell’immagine non direttamente connessi alla sua attività sportiva (quindi non quelli con gli sponsor tecnici) si applica l’art. 7 dei trattati internazionali sulla doppia imposizione, che sostanzialmente vieta all’Italia di tassarli. Al contrario, per quanto riguarda le attività strettamente calcistiche si applica l’art. 17, ovvero le aliquote previste dal Paese dove il calciatore gioca.
Twitter: @antoniovanuzzo