Nel contrasto alla violenza sulle donne l’Italia è tra i primi della classe. Almeno sulla carta. Saremo presto il quinto Stato – dopo Albania, Portogallo, Turchia e Montenegro – ad aver ratificato la Convenzione di Istanbul, il trattato internazionale del Consiglio d’Europa volto a prevenire e sanzionare i femminicidi, gli stupri e le altre forme di violenza di genere. Rimangono ora venti Stati – tra cui Francia, Germania, Spagna, Inghilterra, Svezia ecc. – che pur avendo firmato il trattato non lo hanno ancora ratificato.
Dopo che martedì 28 maggio la Camera ha approvato la Convenzione all’unanimità (e dopo le polemiche per l’aula semideserta durante la discussione prima del voto), manca l’approvazione del Senato. In base a quanto stabilito dal trattato serviranno comunque le ratifiche di altri cinque Stati prima che la disciplina internazionale possa entrare in vigore.
Ma qual è il contenuto della Convenzione di Istanbul e dei suoi 81 articoli?
Da un punto di vista generale si stabilisce che «la violenza contro le donne è una manifestazione dei rapporti di forza storicamente diseguali tra i sessi, che hanno portato alla dominazione sulle donne e alla discriminazione nei loro confronti da parte degli uomini e impedito la loro piena emancipazione», che tale violenza ha natura strutturale, essendo basata sul genere, e che «è uno dei meccanismi sociali cruciali per mezzo dei quali le donne sono costrette in una posizione subordinata rispetto agli uomini». A livello di definizione poi la violenza sulle donne viene ritenuta una violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione.
Il trattato internazione pone una serie di obblighi a carico degli Stati “parti” della Convenzione (non sono invece riconosciuti diritti azionabili immediatamente dagli individui). In primo luogo devono adottare politiche coordinate contro la violenza sulle donne e predisporre la raccolta dei dati allo scopo di monitorare il fenomeno. Si devono poi impegnare nella prevenzione di questi crimini odiosi, eliminando «pregiudizi, costumi, tradizioni e qualsiasi pratica basata sull’idea dell’inferiorità della donna o su modelli stereotipati dei ruoli delle donne e degli uomini», in particolare sostenendo campagne di sensibilizzazione, programmi scolastici adeguati, incentivando l’informazione e i mass media ad elaborare norme di autoregolamentazione che prevengano la violenza di genere e rafforzino il rispetto della dignità delle donne. Quando la prevenzione non funziona, gli Stati devono adottare una serie di misure per proteggere e aiutare le vittime delle violenze.
La Convenzione di Istanbul prende in considerazione una serie di comportamenti violenti nei confronti delle donne e impone agli Stati di punirli, il più delle volte penalmente. Vengono elencati lo stalking, la violenza fisica, lo stupro, il matrimonio forzato, le mutilazioni genitali, l’aborto o la sterilizzazione forzati e le molestie sessuali. Gli Stati inoltre devono prevedere il risarcimento delle vittime in ogni caso (come estrema ratio paga lo Stato) e la possibilità, in caso di matrimonio forzato, di invalidare l’unione senza oneri eccessivi per chi denuncia.
Ha un sapore antico per la legislazione italiana l’articolo con cui si obbligano gli Stati a vietare che nei processi penali si possano invocare come scusanti «cultura, usi e costumi, la religione, le tradizioni o il così detto onore», anche se ancora oggi nel tessuto sociale sono elementi che faticano a scomparire. Più attuale e di fondamentale importanza la disposizione che impone agli Stati di «vietare i metodi alternativi di risoluzione dei conflitti, tra cui la conciliazione e la mediazione», per tutte le forme di violenza oggetto della convenzione. La gravità dei comportamenti è tale da necessitare sempre e comunque un processo e, inoltre, esigenze di tutela anche psicologica della vittima sconsigliano di ricorrere a procedure che richiedano un accordo tra le parti in causa.
Seguono una serie di disposizioni procedurali, caratterizzate dall’attenzione per la tempestività che si richiede alle misure di protezione delle vittime. Troppo spesso, e lo dicono le cronache quotidiane dei femminicidi, la violenza si sarebbe potuta evitare sterilizzandola sul nascere se solo si fosse agito più velocemente. La Convenzione dispone poi che i reati in questione debbano poter essere perseguiti anche senza la denuncia da parte della vittima. E se una denuncia c’è, poi viene ritirata e le accuse ritrattate lo Stato deve prevedere che il processo possa continuare. L’importanza di norme come questa si è vista anche di recente, ad esempio nel caso della giovane di Caserta che ha prima denunciato e poi perdonato il suo persecutore. Al di là del volere della vittima, che spesso è vittima anche da un punto di vista psicologico, lo Stato italiano prosegue il processo.
Molte delle disposizioni della Convenzione di Istanbul sono ridondanti (per fortuna) per l’Italia che, avendo una legislazione negli standard europei, ha già molte norme su questa materia. Le parti più importanti del trattato potrebbero essere – se ben recepite – quelle di carattere più “culturale”, là dove chiedono di intervenire nelle scuole, nei mass media, nell’educazione in generale per fare quei passi in avanti ancora necessari all’affermazione di un’immagine non discriminatoria della donna.
Significativa l’ultima parte del trattato, quando prevede che i rappresentanti degli Stati “parti” eleggano, entro un anno dall’entrata in vigore della Convenzione, un organismo incaricato di vigilare sull’attuazione della stessa. Si tratta del “Grevio”, il Gruppo di esperti sulla lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, composto da 10-15 personalità di elevata moralità e competenza. Al Grevio vengono sottoposte le relazioni degli Stati (ma può assumere informazioni anche da altre fonti e con visite nei Paesi), perché valuti periodicamente lo stato di attuazione delle norme del trattato. In base ai rapporti del Grevio, se necessario, i rappresentanti degli Stati possono adottare delle raccomandazioni rivolte ad un singolo Stato perché adotti alcune misure entro un certo termine.
Entrata in vigore la Convenzione, e istituito il Grevio, l’Italia sarà dunque costantemente monitorata nei suoi progressi nella lotta alla violenza contro le donne. E se sul piano della legislazione penale gli strumenti già esistono, sarebbe allora compito della politica concentrare i propri sforzi sull’affermazione di un diverso modello culturale.
Twitter: @TommasoCanetta