Il suo nome era stato fatto in sede di negoziazione per la coalizione di governo: Emma Bonino agli esteri in cambio di sostegno per la candidatura di Franco Frattini come segretario generale della Nato, con la fine del mandato di Anders Fogh Rasmussen nel luglio del 2014. In un’intervista con Linkiesta, l’ex ministro degli Esteri e vicepresidente della Commissione europea conferma il suo impegno e presenta la sua agenda per una riforma dell’Alleanza atlantica, tra cybercrime, questioni di spesa militare e scenari mediterranei in esplosione.
Il contesto contemporaneo della sicurezza non riguarda solo l’attività militare tradizionale, ma anche le minacce digitali. Quali sono i rischi attuali e cosa dovrebbe fare l’Europa per fronteggiarli?
Sin dall’attacco del 2007 contro l’Estonia è stato chiaro che l’Europa deve concentrarsi di più sul problema: può lavorare su interessi coincidenti con grandi Paesi come Stati Uniti e Canada, e si può coordinare anche con la Russia. Dovremmo lavorare sugli standard per la prevenzione e la deterrenza dei cyberattack: abbiamo sistemi che sono tuttora diversi e non sono ancora completamente interoperabili. Il cambiamento richiederebbe uno sforzo da parte dell’industria: si dovrebbe creare un mercato comune della produzione e il commercio di tecnologia.
E in chiave Nato, quali sono le azioni prioritarie?
Si potrebbe interpretare in chiave evolutiva l’articolo 5 del Trattato atlantico includendo il cyberattack tra le minacce asimmetriche che includono la possibilità d’intervento dell’alleanza – e c’è già una discussione in fase embrionale in questo senso. Tutti i paesi più esposti stanno prendendo misure straordinarie: gli Usa hanno creato un’unità speciale nel dipartimento per la sicurezza. Lo stesso stanno facendo alcuni paesi europei, tra cui l’Italia.
Nel 2012 per la prima volta la spesa militare dei Paesi asiatici ha superato quella dei Paesi europei. Rasmussen un paio d’anni fa ha fatto presente che i tagli di 45 miliardi di dollari decisi all’epoca dai Paesi europei erano pari al totale del budget militare tedesco.
Dobbiamo tornare a spendere, perché sottovalutare o minimizzare la sicurezza a causa della crisi è un errore strategico e di prospettiva economica. È evidente che la prevenzione dei problemi è più conveniente rispetto all’intervento: se lasciamo degradare lo Sahel e il Mali, finché diventano un porto sicuro per organizzazioni terroristiche yemenite o del Corno d’Africa, l’intervento è più impegnativo rispetto a un impegno immediato di “institution building” e di training. La spesa per la sicurezza è un investimento e non un costo improduttivo.
Ma come fare a tornare a spendere con la crisi attuale?
Ci sono due aspetti. Il primo riguarda una razionalizzazione dei rapporti con l’industria della difesa. Abbiamo un sistema europeo che ha adottato una direttiva per il mercato comune europeo del settore, che elimina le autorizzazioni nazionali, ma non è stata attuata. In un vero mercato europeo si potrebbe razionalizzare il procurement, con grandi risparmi. Si dovrebbero poi adottare decisioni politiche, in merito alla scelta dei settori che nella sicurezza possono essere ridimensionati: pensiamo all’eccesso di forza di terra a lento dispiegamento, mentre servono oggi forze di “rapid deployment”. Spesso abbiamo fatto l’errore di “tagli orizzontali”, che non richiedono scelte politiche.
E che ruolo rivestirebbe la Nato in questo progetto?
La Nato potrebbe svolgere un compito di coordinamento, per definire l’ottimizzazione della spesa in base a una migliore divisione delle attività. Ci sono paesi caratteristiche particolari, di esperienza o tecnologia, i quali si possono specializzare in particolari settori d’intervento – l’Italia per esempio si è contraddistinta per l’”Air Policing”, e per il rifornimento aereo. Per fare questo, operativamente servirebbe anche un sistema di coordinamento sulle risorse a disposizione e sui tempi di attivazione – e questi impegni devono essere certificati, per garantire che le capacità siano davvero disponibili e non debbano essere duplicate.
Come redistribuire però l’equilibrio di spesa in ambito Nato, considerato che gli Stati Uniti contribuiscono per tre quarti del budget totale?
Il “soft power” europeo non può essere l’unica risorsa, altrimenti l’Europa diventa l’appendice dell’“hard power” americano e noi europei ci limiteremmo a fare i “consumatori” di sicurezza americana. Un maggiore equilibrio aiuterebbe molto, e il percorso verso il 50-50 tra Stati Uniti e resto dell’alleanza dovrebbe essere realizzato anche tramite l’ottimizzazione della spesa.
La riforma della spesa, anche con un mercato unico continentale, deve però fronteggiare forti divisioni nazionali nell’industria – si vedano i casi di Finmeccanica e il blocco politico che ha impedito la fusione tra Eads e Bae. Forse è necessaria una maggiore privatizzazione?
Tra i partner europei della Nato solo cinque o sei sono dotati di un’industria nazionale della difesa. Se questi Paesi continuano a mantenere ostacoli o barriere e a duplicare il procurement, anziché dividersi i compiti, è un peso considerevole e di carenza di competitività per l’Europa. Sarebbe un bel segnale se al Consiglio Europeo sulla Difesa in dicembre si arrivasse con una road map sull’implementazione di un mercato europeo. Questo passo potrebbe poi accompagnarsi con una negoziazione con gli Stati Uniti per la creazione di un “Free Trade Agreement” generale – ma prima dobbiamo liberalizzare in casa.
A livello politico, sembra che si sia fermato l’avanzamento della Nato verso est, per via della pressione russa: paesi come Georgia e Ucraina difficilmente potranno entrare a pieno titolo nell’alleanza.
Non parlerei di una sospensione dell’ampliamento, ma un processo di rigoroso esame delle condizioni che legittimano l’avvicinamento e l’adesione alla Nato. In alcuni paesi ci sono problemi democratici, di sviluppo e garanzia dei diritti umani, che sono requisiti per l’accesso.
In merito alla candidatura Nato si è parlato di un sostegno bipartisan per lei come Segretario Generale.
Ho accettato con umiltà l’onore della candidatura sostenuta dal presidente Napolitano e dai premier Monti e Letta. Per me è un riconoscimento personale, e sarebbe poi la prima volta in 42 anni che un italiano avrebbe la posizione di segretario della Nato. Credo che la mia esperienza al dicastero degli Esteri e come vice-Presidente della Commissione Europea – con delega alla sicurezza – possano essere utili nello scenario contemporaneo: la conoscenza del quadrante mediterraneo è fondamentale per comprendere gli sviluppi in Nord Africa, nello Sahel e in Medio Oriente. Contribuirei allo sviluppo di una nuova Nato meglio integrata con l’Europa e proiettata verso i partenariati con il mondo arabo.