Ci sono molti modi per fare ambientalismo. Da Italia Nostra a Greenpeace la varietà è quasi infinita. Ma ce n’è un altro, spesso mal visto, estremo e fuori dal comune, si chiama eco-porno. Lo hanno inventato un norvegese, Tommy Hol Ellingsen, e una svedese, Leona Johansson, che, nel 2004, hanno fondato la prima e finora unica Ong porno-ambientalista, Fuck for Forest. Con l’obiettivo dichiarato di salvare le foreste pluviali del Sud e centro America. Come? Con i proventi delle vendite di filmati porno amatoriali prodotti da loro, senza nessuna cura artistica. Né per attori né per registi. Sottoscala, palchi di concerti, topaie. Tutto va bene. Basta non disturbare la vita selvaggia (There are no laws in love. Love is the law!), come scrivono sul web sopra due foto in cui sono ritratti, incastrati tra di loro in posizioni esplicite sugli alberi dell’Amazzonia, che vogliono proteggere dalla deforestazione.
«Vogliamo liberare le nostri menti, recuperare il contatto con la natura con noi stessi e con il pianeta», spiega Tommy, coperto di tatuaggi e vestiti sgualciti, alla Bbc. Ma la risposta delle popolazioni amazzoniche non è così scontata, i rapporti non così facili come avrebbero pensato. La loro esperienza, contraddizioni comprese, è raccontata nel film documentario F*ck for forest (con o senza asterisco per via della censura) del regista polacco Michal Marczak, presentato in anteprima italiana questa sera al festival Cinemambiente di Torino (cinema Massimo), rassegna internazionale a tematica ambientale inaugurata da Bill Pullmann e giunta ormai alla sua sedicesima edizione (31 maggio – 5 giugno).
Marczak ha seguito gli attivisti per sette mesi, registrandone quotidianità, umori e aspirazioni. Parte da Bergen, in Norvegia, perché è nel Paese scandinavo dove nasce l’associazione. Il governo, all’inizio, li aveva finanziati per sei mesi fino a quando non sono saliti sul palco del Quart festival e si sono messi a fare sesso mentre una death’n’roll band, i Cumshots, suonava. Sono finiti in tribunale per oscenità, Tommy per mostrare «la bellezza della nudità» si è fatto cadere i pantaloni davanti alla Corte. Condannati a una sanzione pecuniaria, hanno poi scelto di traslocare a Berlino, un’altra location del film. Anche qui, il gruppo ha continuato a raccogliere soldi attraverso il proprio sito, si parla di 100 mila euro l’anno, anche attraverso l’abbonamento mensile di 12 euro che consente di avere accesso all’archivio di video e foto hard. I fondi sono destinati all’ambiente e alle popolazioni indigene in America (Ecuador, Costa Rica, Brasile) e a un’iniziativa per salvare i boschi della Slovacchia. Uno dei primi personaggi ritratti dalla pellicola è Danni DeVero, un ragazzo norvegese neohippy come gli altri, ma a differenza dei soci è stato un ex fantino quasi olimpionico. Nel 2008 rifiutò, infatti, di partecipare alle Olimpiadi di Pechino per sensibilizzare l’opinione pubblica sul maltrattamento degli animali. La famiglia non la prese bene e, ancor meno, la sua scelta di aderire al progetto Fuck for forest.
I movimenti ambientalisti non li hanno mai visti di buon occhio, il primo a sfilarsi fu il Wwf, sia norvegese che olandese, che rifiutò le loro donazioni, poi Arbofilia, associazione operante in Costa Rica che aveva inizialmente portato avanti con loro un progetto di riforestazione. Nella capitale tedesca si sono fatti ulteriori nemici, sono stati espulsi da un convegno anarchico nel 2009, perché volevano parteciparvi svestiti, ma hanno raccolto anche nuovi «collaboratori»: durante un evento estivo hanno proposto ai passanti di spogliarsi, ottenendo risposte spesso positive, anche di un’italiana: «Noi abbiamo tanti problemi col sesso per colpa del Vaticano».
Le giornate degli attivisti procedono nella più totale disorganizzazione, i set hardcore sono improvvisati e improbabili, la camera registra i loro stralci di vita. Molto frugale. Cibi e vestiti vengono presi dalla spazzatura. «A differenza di altre Ong occidentali non spendono i fondi per alimentare associazioni e mediatori correlati, ma solo per i loro progetti» ha notato positivamente Marczak, con cui però i rapporti si sono incrinati dopo l’uscita del film. È stato accusato di averli fatti passare per «ingenui edonisti».
Prima della partenza per l’agognata quanto idolatrata Amazzonia, Tommy dopo aver fatto sesso con una donna in uno scantinato davanti a un piccolo pubblico, ha l’opportunità, leccandosi le mani, di sentenziare: «Blood and sperm. The perfect mix». Le critiche degli attivisti al regista riguardano soprattutto la seconda parte del film, che si sposta, insieme agli stessi, in Sud America, da Manaus in Brasile a Leticia in Colombia, fino a Pevas in Perù. Il progetto presentato, con tanto di critica alla società occidentale, a una comunità peruviana non avrà, però, il successo sperato. Soldi rifiutati. «Noi abbiamo bisogno di aiuto, il governo non ce lo dà; lo accettiamo solo da gruppi con buone intenzioni e che vengono qui per darci lavoro» rispondono gli indios.
Tommy, Leona e gli altri rimangono delusi. E succede che pochi secondi dopo la camera si sposti, in continuità, nello stesso salone, su un venditore di motoseghe appena arrivato. «Ultimo modello, molto leggero» urla e raccoglie un’istantanea attenzione dalla tribù. Altro che riforestazione.
«Davvero non voglio giudicare il gruppo di Fuck the forest, ma la mia prima reazione è stata “stanno cercando di salvare persone dall’altra parte del pianeta, quando non riescono ad aiutarsi l’un l’altro”». ha detto Marczak, regista del documentario, al Guardian che ha riportato lo scontro tra autore e attori. «Vivono in un piccolo mondo delle meraviglie, secondo le loro stesso regole. Non pianificano nulla, nemmeno quello che faranno il giorno dopo. Questo è ciò che, però, mi ha incuriosito di loro».
La replica degli attivisti: «Sono stati regista e produttori del film a volerci far andare da quella tribù specifica, che non conoscevamo. E loro non ci conoscevano. Sono otto anni che lavoriamo con e per i popoli nativi di tutto il Sud e Centro America e sappiamo molto di loro. Se fossimo stati noi a organizzare il viaggio, e non registi e produzione a manipolare, l’esito sarebbe stato diverso». Dunque, l’eco-porno, nonostante i risultati contrastanti, continua. E farà ancora discutere.