Quando si dice la potenza delle lobby. Più passa il tempo, più il piano per introdurre a livello europeo una Tassa sulle transazioni finanziarie (Tff), meglio nota come “Tobin Tax” – quella, insomma, che deve chiamare anche il settore finanziario a contribuire ai costi della crisi – si assottiglia e perde peso, senza neppure troppo clamore. E dire che solo sette mesi fa in pompa magna 11 stati tra cui l’Italia (gli altri sono Germania, Francia, Spagna, Austria, Portogallo, Belgio, Estonia, Grecia, Slovacchia e Slovenia) lanciavano la cooperazione rafforzata per la Tobin Tax – visto che a 27 non era possibile (nell’ambito fiscale è necessaria nell’Ue l’unanimità), soprattutto per il no categorico della Gran Bretagna e della Svezia, e i forti dubbi dell’Olanda, con una buona parte del comparto bancario e finanziario europeo in rivolta.
Nel frattempo, i dubbi sono andati aumentando e, a detta di numerosi diplomatici a Bruxelles, «è venuto meno lo slancio della prima ora». Soprattutto, buona parte dei partecipanti storcono sempre più il naso di fronte alla proposta del commissario europeo alla Tassazione Algirdas Semeta. In soldoni: prelievo dello 0,1% su azioni e bond, dello 0,01% sugli scambi di derivati. Pochissime eccezioni, e regola della «residenza»: il prelievo scatta anche se lo scambio avviene fuori dall’area in cui si applica la tassa, se uno dei due contraenti ha la sede in uno dei paesi partecipanti. Un concetto che manda su tutte le furie innanzitutto i britannici, visto che sarebbero colpiti molti scambi nella City anche se Londra non partecipa.
Il punto, però, è che l’incertezza cresce anche in Francia, insieme alla Germania il paese promotore dell’iniziativa – nonostante i ripetuti proclami del presidente François Hollande. Si è fatto sentire solo pochi giorni fa il governatore della Banque de France, Christian Noyer, con pesanti moniti: «Siamo chiari – ha detto– questa non è una tassa limitata alle banche, ma avrebbe ripercussioni sulle imprese e gli individui».
La Francia, soprattutto – in primo luogo per la fortissima pressione della lobby bancaria locale, molto esposta nell’investment banking – frena sull’idea di imporre la tassa sui derivati. Preferirebbe, piuttosto, di applicare al settore degli scambi di valuta, ma sono in tanti i tecnici a dire che sarebbe giuridicamente problematico. La Francia, inoltre, e ancor più l’Italia (entrambi i paesi hanno introdotto a livello nazionale forme ridotte di Tobin Tax) e la Spagna sono molto preoccupate per la proposta della Commissione di applicarla anche agli scambi di titoli di Stato sul mercato secondario: il timore – condiviso in parte anche dalla Bce – è che questo possa avere un impatto negativo sul finanziamento del debito pubblico.
Si fanno sentire anche l’Austria e il Belgio, che chiedono a gran voce di escludere in toto i fondi pensioni. La Germania, per ora, nicchia, anche se sono vari i diplomatici ad affermare che il suo entusiasmo è decisamente scemato. E Berlino – anche se il ministero delle Finanze giura che i tedeschi vogliono la tassa – non si muoverà almeno fino alle elezioni del 22 settembre.
Certo, pesa anche in terra germanica la potentissima lobby finanziaria, che sta facendo fuoco e fiamme. «Il problema principale – ha tuonato Michael Kemmer, a capo dell’Associazione bancaria tedesca, facendo eco alle parole di Noyer – è che una simile tassa colpisce non solo i mercati finanziari, ma l’intera economia, dalle imprese fino ai piccoli risparmiatori con i loro sistemi di previdenza. Ci sarebbero conseguenze pesanti che devono esser valutate bene». La cancelliera Angela Merkel, che punta molto sul sostegno di imprese e banche per la sua rielezione, non può far finta di nulla.
In generale, si sente dire a Bruxelles, il grosso dei partecipanti teme che alla fine la Tobin Tax in salsa europea possa essere controproducente e danneggiare la mitica ripresa che non arriva. E così, riferiscono vari diplomatici – anche se siamo ancora agli inizi – si sta coagulando un consenso su una proposta molto più limitata, simile allo stamp duty (imposta di bollo) britannico: la tassa si applica solo agli scambi di azioni, alcune forme di bond e pochi derivati, al momento dell’emissione, senza più applicare il concetto della residenza della società coinvolta.
Secondo il Financial Times, Roma e Madrid sarebbero d’accordo. L’idea è insomma quella di una Tobin Tax ridotta ai minimi termini, sul concetto dell’introduzione molto, ma molto graduale. Si partirebbe nel 2014 con l’aliquota minima, lo 0,01% applicato ad azioni e bond (invece dello 0,1% previsto dalla Commissione). Per i derivati, si vedrebbe in un secondo tempo, dopo aver verificato gli effetti della prima fase. Problema: la Commissione, con le sue aliquote, aveva stimato un gettito fino a 35 miliardi di euro l’anno. Con queste nuove molto più basse si scenderebbe a un massimo di 3,5 miliardi di euro. Una cifra che, soprattutto se spalmata su 11 paesi tra cui le 4 maggiori economie dell’eurozona, risulta a dir poco ridicola.
Il settore finanziario ha fiutato l’aria, e gioisce. E, al tempo stesso, aumenta il bombardamento. È di questi giorni la notizia che 18 associazioni del settore, guidata dalla Association for Financial Markets in Europe a la Future and Options Association (ma ci sono anche altri big come la International Capital Market Association e la International Swaps and Derivatives Association), hanno creato un organismo comune di rappresentanza per meglio coordinare la battaglia contro la pur timida Tobin Tax europea allo studio. Il battage è chiaro: voi applicate la tassa, e noi trasferiamo le nostre attività altrove. Il commissario Semeta sdrammatizza sui dubbi crescenti, «è normale, siamo agli inizi», eppure c’è già chi scommette che alla fine la Tobin Tax europea non arriverà mai.