Federal Reserve e Cina, ma non solo. Il ritorno della volatilità sui mercati finanziari non deve essere imputabile solo a queste due ragioni. Dopo i crolli azionari di ieri, e dopo la caduta del prezzo dell’oro, in tanti hanno iniziato a domandarsi dove sia finita tutta l’euforia rialzista che ha contraddistinto i mercati negli ultimi mesi. È possibile che sia finita, tanto sull’equity quanto sull’obbligazionario. Al suo posto, le montagne russe.
Che la Federal Reserve abbia messo un minimo di nervosismo in più nell’animo degli investitori era prevedibile. E forse già scontata in buona parte dai maggiori operatori. Tuttavia, le vendite di ieri sono arrivate sull’onda dell’incertezza sul significato delle parole del governatore della Fed, Ben Bernanke. Le operazioni di mercato aperto continueranno – sempre allo stesso livello, 85 miliardi di dollari al mese – ma si assottiglieranno già a partire da quest’anno. Exit strategy dal Quantitative easing? Sì. Il problema per gli operatori è che non si sa nulla di più. Poche le indicazioni di Bernanke, scarsa la comunicazione della Fed. Molto di più si saprà a Jackson Hole, il simposio economico dei banchieri centrali di fine agosto. Fino ad allora, la volatilità legata alle decisioni della Fed potrebbe essere la regola, non l’eccezione. Il tutto a discapito di Treasury, il cui rendimento è in rialzo, e di oro, il cui prezzo è in declino.
L’altra grande ragione è la Cina. I segnali del rallentamento continuano a essere evidenti, come mostrato dall’HSBC China Purchasing Manager’s Index di giugno. L’indice che valuta la vivacità del settore manifatturiero cinese è ai minimi da nove mesi ed è lecito chiedersi fino a che punto riuscirà l’economia cinese a trovare una stabilità. La ricerca di un nuovo equilibrio dei fattori di crescita è l’obiettivo. Meno chiaro è invece come è possibile raggiungerlo. Secondo la banca anglo-asiatica HSBC, Pechino ha la possibilità di risolvere i problemi interni, ma solo a patto di grandi sacrifici. In altre parole, mutare la propria struttura di sviluppo economico. Non solo. Da Paese emergente, la Cina è diventato emerso, mantenendo le peculiarità che oggi le vengono contestate: mancanza di diritti, scarsa trasparenza di regolamentazione finanziaria, significativa opacità bancaria. Fino a quando non saranno risolti questi problemi, la Cina continuerà a essere una minaccia. Se poi a questo quadro poco rassicurante sulla Cina, si aggiungono i problemi strutturali delle altre due principali economie emergenti, come Brasile e India, gli investitori hanno poco da stare allegri.
E poi c’è l’eurozona. I progressi per uscire dalla peggiore crisi della sua storia ci sono, inutile negarlo. Il problema è che sono troppo lenti. Basti pensare a cosa si sta discutendo in questi giorni in Lussemburgo, ovvero il meccanismo di risoluzione bancaria, o Single resolution mechanism (Ssm). La proposta di direttiva comunitaria in merito a questo schema è stata presentata il 6 giugno 2012, oltre un anno fa. Se è vero che gli investitori internazionali, soprattutto quelli statunitensi, sono tornati ad allocare risorse nell’area euro negli ultimi 12 mesi, soprattutto grazie alle mosse della Bce, è altrettanto vero che questa fiducia non sarà infinita. La calma apparente è facile che duri fino alle elezioni tedesche, previste in autunno. Poi si vedrà. Quello che è certo è che o l’eurozona spinge sull’acceleratore o i mercati finanziari saranno inclementi. Del resto, questo clima di fragile tranquillità si basa tutto su un artifizio finanziario, le Outright monetary transaction (Omt) della Bce, che ancora non si è visto all’opera. Esiste, ma solo sulla carta.
Infine, c’è una ragione fisiologica dietro alla grande volatilità di questi giorni. Dopo aver raggiunto (e superato) i massimi, diversi mercati azionari hanno iniziato una piccola correzione. Un esempio? Dow Jones e S&P 500, ma anche il FTSE100 inglese, hanno goduto della straordinaria liquidità presente nell’universo finanziario. Dopo mesi di vacche grasse, era facile aspettarsi una sequela di realizzi. Puntualmente, sono arrivate. Come spiega Goldman Sachs, «sarà l’autunno a essere la cartina di tornasole dello stato dell’equity globale». Quando cioè si capirà qualcosa in più sul futuro di Fed, Cina ed eurozona.