Il romanzo italiano di Bossi, Re Leone al crepuscolo

«Maroni ha tradito» e ancora «A me non m’ammazza nessuno!»

«Maroni è un traditore, adesso mi riprendo la Lega!». Prova ancora a ruggire, Umberto Bossi, intervistato da Gad Lerner su la Repubblica, e minaccia di nuovo una scissione, come fece a il Fatto Quotidiano solo pochi giorni fa: «A me non mi ammazza nessuno!». È un Bossi che annuncia un nuovo giornale e, come accade spesso alla politica di questi tempi, prova a mimare l’imitazione di Maurizio Crozza, quella che lo immagina come un disturbatore saturnino che irrompe sulla scena intonando la sigla festosa dei Muppets e grida: «Maroni al Nord! Tatata–ta–taaa–ta–ta–ta!». Solo che quel Bossi di Crozza è giocoso e perfido, mentre quello raccontato da Lerner, addolorato e ferito.

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Sta diventando davvero un romanzo dolente e crepuscolare la sua parabola politica, un romanzo non più padano, e non più epico: il senatùr, che un tempo è stato il re leone indiscusso, il capo della Lega Nord, il guerriero che ruggiva con improperi e insulti («Boniver, Bonazzi, siamo armati di manico!»), che parlava per immagini apodittiche («Attenti alla rabbia del Nord!»), quello che sferzava i suoi avversari («A Occhetto, paperetto, gli sgommo sopra!») e dava il tormento ai suoi alleati («Ué, Gianfranco, credevo che tu fossi un pirla. E invece…») non c’è più. Era il Bossi satrapo che espelleva senza colpo ferire e tutti dissidenti, cesellando nell’invettiva contro di loro alcune delle immagini più feroci e indimenticabili della letteratura politica: «Miglio? È una scoreggia dispersa nello spazio».

Quell’Umberto Bossi – piacesse o meno – è stato un contaminatore di stili, di generi, di idee oltre l’iperbole, uno che fondeva il mito del Sacro Graal con la cosmogonia di Guerre Stellari, che univa i manga giapponesi all’esoterismo autocratico, la letteratura al rutto. Me lo ricordo a Montecitorio, nel 1995 in un pomeriggio in cui sorseggiando un chinotto alla buvette ci diceva, ispirato ma serio: «La Lega arriverà al massimo storico: questo è l’anno del Samurai!». Uno che coltivava l’idea del capo guerriero ambientando il suo immaginario fra le cornamuse di celluloide di Braveheart, gli spadoni di cartapesta di Pontida, gli elmi di Asterix alle feste padane e la fisicità ruvida delle camicie verdi impiegate nelle ronde. Uno che prima della malattia citava la propria famiglia dicendo: «Quando un capo guerriero va in battaglia sua moglie lo segue dietro il suo cavallo».

Era insomma l’orgoglio neo-barbarico che si opponeva al più antico dei vizi italici, il familismo. Non c’erano ancora i parenti, le mogli, le first ladies, non c’erano case e ristrutturazioni, perché il Senatùr era sempre in battaglia per il Carroccio, dormiva in macchina e la sua famiglia era un’unica comunione con il suo popolo. La prima moglie di Bossi diceva di aver visto dissipato tutto per la causa del marito (e senza volerlo), di aver subito la beffa del finto medico che andava al lavoro. Quel Bossi giovanile componeva poesie in dialetto,i soldi li disprezzava, e da ragazzo – quando sognava di vincere Castrocaro con il memorabile nome d’arte di “Donato” – cesellava versi immortali come questi: «Noi siam venuti dall’Italy / Abbiamo un piano / per far la lira / Entriamo in banca col caterpillar / e ci prendiamo il grano».

Poi è arrivata la malattia, e nulla è stato più come prima. Poi sono arrivati i guai dei figli, Riccardino, le fidanzate da reality, la saga del Trota, la laurea in Albania, gli autisti bancomat che fanno i filmini, e il capo guerriero è diventato un custode del familismo amorale prima, e senile e poi. «Mi hanno ristrutturato la casa a mia insaputa». Era peggio di quella di Scajola, quella giustificazione, perché quello almeno se l’era comprata, la casa, mentre lui faceva la figura del fesso con la badante. Da anni Bossi non era più in grado di capire, controllare, discernere il filo degli investimenti spregiudicati, le speculazioni pataccone della Lega Nord («per l’indipendenza della Tanzania» si scrisse causticamente nel web), il cerchio Magico, Rosi Mauro, quel tesoriere Belsito che oggi nega, persino, di avere scelto: «Si era messo al fianco di Maurizio Balocchi» ha detto a Gad Lerner.

Il Bossi di oggi pare costretto a inscenare la parodia del Bossi che fu, della sua caricatura. Invece la virilità è diventata senilità: il leone spelacchiato costretto a saltare nel cerchio di fuoco, il leader che bisbiglia costretto ad alzare il dito medio, quello che sogna il ritorno da Sant’Elena e dice: «La pressione dei militanti è ormai fortissima, devo per forza rimettermi alla guida della Lega».

Bossi non è pienamente consapevole del proprio dissiparsi, e questo rende avvincente anche il suo declino: “Bossi di seppia”, titolò una volta con perfidia D’Agostino, citando Eugenio Montale, e l’immagine del carisma svaporato. Lo sa bene Maroni che lo ha pugnalato togliendogli la scorta e gli autisti, e in realtà facendo sapere al mondo che il Senatùr in tempo di crisi aveva un appannaggio regale di 800mila euro l’anno dalla Lega. «Mi hanno tolto gli autisti e le guardie del corpo – si è lamentato lui – ora può passare un pazzo, e buttare una bomba in giardino». Invece più probabilmente non passerà nessuno. Maroni può corrodere il mio infranto di Bossi, ma non se può nemmeno liberare. Il romanzo Padano è diventato una italianissima telenovela.