È l’ultima banca “di sistema”. E come l’Italia, aspetta Godot senza grandi idee. Una fase di transizione, quella di Intesa Sanpaolo, iniziata con la chiamata istituzionale del consigliere delegato Corrado Passera e tuttora in fieri. Un istituto di credito in stand by, almeno fino a quando i grandi vecchi Giovanni Bazoli e Giuseppe Guzzetti lasceranno il timone. Soltanto allora si potrà aprire un nuovo capitolo. Banca commerciale, banca d’investimento, custode degli equilibri del capitalismo di relazione nel momento in cui Mediobanca – che ha presentato il piano industriale – sarà meno holding e più banca d’affari. Ca de’ Sass deve scegliere quale cavallo, o quali, potrà garantire soddisfazioni durature agli azionisti.
«È un elefante che vive di inerzia», è il commento tranchant di chi conosce bene la banca. Allineandosi alle richieste di Palazzo Koch, lo scorso ottobre Intesa ha varato una mini riforma della governance duale, che prevede l’ingresso nella stanza dei bottoni del consiglio di gestione di almeno quattro manager interni e due consiglieri indipendenti. Complici i litigi all’interno di Assogestioni sulla nomina di Vincenzo Carriello – contro il quale si è espressa la controllata Eurizon, vicenda che ha portato i fondi esteri ad astenersi e gli indipendenti a racimolare soltanto 2 posti dei 5 potenziali – gli azionisti storici si sono assicurati ben 23 poltrone sulle 29 disponibili. Un asserragliamento frutto del fine lavoro diplomatico di Giovanni Bazoli, che va bene per l’oggi, per il domani si vedrà. L’ingresso nel consiglio di gestione dell’ex numero uno di Imi in cambio della cessione della delega alle partecipate nelle mani del consigliere delegato Enrico Cucchiani da un lato, e la nomina di Carla Ferrari, vicina a Sergio Chiamparino, presidente della Compagnia di San Paolo – il principale azionista dell’istituto – completano la blindatura.
Forte della fiducia di Bazoli, si racconta che Cucchiani in questa fase sia in «isolamento volontario», chiuso nei suoi uffici a studiare assieme ai suoi consulenti senza lasciar trapelare alcuna indicazione alle prime linee del management. La separazione non consensuale con l’ex direttore generale Giuseppe Castagna, l’indebolimento del direttore operativo Francesco Micheli, il ruolo del presidente del consiglio di gestione Gian Maria Gros-Pietro, il rafforzamento crescente del direttore generale Carlo Messina, che alcuni vedono già come papabile per la successione a Cucchiani. Nomi ed episodi che tradiscono come la rifocalizzazione del primo istituto del Paese per asset sia ancora in pieno corso.
I numeri del primo trimestre 2013 (in giallo) e quelli del primo trimestre 2012 (in blu). Fonte: bilancio Intesa Sanpaolo
Una spia è la gestione delle partecipazioni strategiche. A differenza di Mario Greco, numero uno di Generali che, d’accordo con gli azionisti, sta progressivamente uscendo dalle attività non strettamente assicurative, Cucchiani al contrario sta prendendo tempo. A metà luglio, quando si chiuderà l’aumento di capitale, Intesa salirà ancora nell’azionariato di Rcs, la società editrice del Corriere della Sera. L’obiettivo, stando alle parole dell’ex Allianz, è di uscire una volta che la società sarà in grado di reggersi sulle proprie gambe. D’altronde, come sosteneva l’ex governatore di Bankitalia, Guido Carli, citato dal consigliere delegato, “gli istituti di credito non devono fare gli editori”. Stesso discorso per la filiera Pirelli-Prelios: meglio prestare a Tronchetti Provera 150 milioni che rischiare sofferenze potenziali per un miliardo nell’ex Pirelli Real Estate.
A dir poco complesso il dossier Telco, holding al 22,5% di Telecom Italia di cui l’istituto è azionista all’11,5 per cento. Da un lato scorporo della rete è una mission impossible a meno di sconti regolamentari da parte dell’Agcom, indispensabili – secondo quanto ha riferito ieri il presidente Franco Bernabè in un’audizione al Senato – per rendere l’operazione redditizia sia per la Cassa depositi e prestiti che per eventuali fondi esteri. Dall’altro l’ampiezza del payout, la percentuale degli utili che remunera gli azionisti sotto forma di dividendi, e gli interessi sui 30 miliardi di debiti lasciano esigui margini per sviluppare un asset fondamentale per il Paese. C’è poi Alitalia, di cui Intesa detiene il 9%, che sembra finirà la cassa nel giro di quattro mesi. E infine il ritorno di Luigi Zunino, pronto a lanciare un’Opa con i soldi del Banco popolare su Risanamento, di cui Intesa assieme a Unicredit detiene il 60 per cento.
La cordata per il salvataggio della compagnia di bandiera, che vide tra i protagonisti anche l’attuale premier Enrico Letta, fu per certi versi l’apice della strategia che l’ex consigliere delegato Corrado Passera aveva perseguito con determinazione: istituire una “cabina di regia” in grado di accompagnare la politica industriale dell’esecutivo, con una chiara visione politica. Non a caso Monti chiamò sia lui al dicastero di via Veneto sia – su suggerimento di Passera – Mario Ciaccia, ex uomo forte di Biis (la branch di Intesa che si occupa di finanziare le grandi opere) alle Infrastrutture.
Intesa ha avuto dunque un ruolo completamente diverso dalla Mediobanca di Cuccia, che attraverso i patti di sindacato compattò la grande industria contro l’invasione dei “rapaci” capitali stranieri. Passera era il Presidente del consiglio, Bazoli il ministro degli Esteri. I tempi sono cambiati, e la posizione di azionista e creditore insieme non è più funzionale né alla gestione delle controllate, né alla loro fruibilità sul mercato.
I numeri del primo trimestre 2013 (in giallo) e quelli del primo trimestre 2012 (in blu). Fonte: bilancio Intesa Sanpaolo
«Wait and see», aspettiamo e vediamo. È questo il nuovo mantra. Niente aggiornamento – almeno a breve termine – del piano industriale dopo la magra figura rimediata con il Piano 2011-2013, licenziato con numeri troppo ottimisti alla luce della crisi dei debiti sovrani che di lì a pochi mesi sarebbe deflagrata. Tantomeno con l’incertezza sulla flessibilità, da parte delle autorità nazionali, nell’applicazione del buffer di capitale richiesto da Basilea III, peraltro già rispettato dall’istituto che presenta un patrimonio base di vigilanza (Core Tier 1) all’11,2 per cento. Una ferita, quella del piano industriale, che brucia ancora. Tant’è che nel primo trimestre dell’anno l’istituto ha mantenuto iperprudenzialmente 20 miliardi di liquidità pronta all’uso in caso di crisi sovrana post elettorale. Il costo di mantenere attivi cash da smobilizzare rapidamente ha mandato in rosso per 424 milioni – 100 milioni dei quali sono ascrivibili ai 20 miliardi di cui sopra – la tesoreria. Indebitarsi a lungo termine per investire in strumenti a breve abbatte la marginalità, ma serve a dare sicurezza al gruppo quando il quadro macroeconomico è incerto, riferiscono fonti interne all’istituto. Stando ai conti del primo trimestre, infatti, «L’esposizione in titoli di Stato italiani è pari a 90 miliardi, nel cui ambito il perimetro bancario presenta un’esposizione concentrata sul breve termine (43 miliardi fino a 2 anni), con una duration pari a 1,8 anni. Più lunga invece è la duration del portafoglio assicurativo, pari a 5,8 anni». Un eccesso di scrupolo che ora si sta riassorbendo progressivamente, e che riguarda anche l’inizio del processo di restituzione dei 36 miliardi presi a prestito dalla Bce nelle due aste Ltro di dicembre 2011 e gennaio 2012, non ancora avviato.
Banca dei Territori, la divisione retail a lungo funzionale alle attività di banca d’investimento di Imi, che non ha una struttura di proprietary trading come le merchant bank anglosassoni, ma continua a macinare utili (vedi tabella sopra) – a loro volta i prodotti strutturati da Banca Imi sono distribuiti alla clientela – è stata di recente affidata alla cura di Carlo Messina. Il quale a Radiocor ha negato una «gelata» negli impieghi a Pmi e famiglie, sottolineando al contrario che nei primi tre mesi dell’anno Intesa ha erogato 5 miliardi complessivi, con un incremento del 15% sul primo trimestre del 2012. Certo, con l’allargamento del fondo centrale di garanzia – in caso di default è lo Stato (e quindi tutti noi) a metterci una pezza – è tutto un po’ più facile.
Le filiali costano – il piano ne prevede la chiusura di mille – le abitudini dei correntisti sono cambiate con l’online banking, e iniziative come l’apertura fino a tarda sera sono estemporanee. Ad aprile 2012 è stato raggiunto un accordo con i sindacati su 600 dipendenti, che si sommano alle 4.200 uscite incentivate e a 900 prepensionamenti deliberati in passato. Basterà? In Italia, Intesa Sanpaolo ha 5.579 filiali e 68.853 dipendenti. Anche la strategia all’estero rimane una grande punto interrogativo, con 200 milioni di perdite nel 2012 soprattutto a causa dell’Ungheria.
L’integrazione organica tra banca commerciale e d’investimento è ormai acqua passata, tanto per via di alcune scelte estremamente costose da parte di Passera in termini di avviamento – attualmente a 8,6 miliardi non ulteriormente svalutati nell’ultimo trimestre – quanto per i suddetti limiti stringenti di Basilea III sul capitale. Eppure, ancora non si intravvede all’orizzonte cosa vuol fare da grande la principale banca del Paese.
Twitter: @antoniovanuzzo