La domanda che si pongono in molti, a questo punto, è la seguente: a che servono le elezioni presidenziali di venerdì 14 giugno in Iran? Premessa: a Teheran il presidente della Repubblica non è il dominus della politica. Detiene formalmente il potere esecutivo, rappresenta lo Stato nei rapporti internazionali, ma non ha il controllo delle forze armate.
La complessa struttura di potere iraniana ha un vertice indiscusso, la Guida Suprema, oggi l’Ayatollah Khamenei. Le candidature alla presidenza vengono sottoposto al vaglio rigoroso del Consiglio dei Guardiani, un organismo in parte di nomina parlamentare, in parte emanazione della stessa Guida. Il che significa che Khamenei ha un sostanziale potere di veto sui candidati sgraditi, potere che questa volta, come vedremo, non ha esitato ad utilizzare. Ed anche nel caso in cui dovessero emergere figure non controllabili, c’è sempre l’ultima ratio, i brogli, quelli che permisero ad Ahmadinejad di scippare quattro anni fa la presidenza al riformista Moussavi. La domanda sull’utilità del voto, per quanto non rara tra gli analisti, resta provocatoria, perché, al di là di veti, estromissioni, tentativi di forzare le regole del gioco, le dinamiche innescate dalle elezioni sono estremamente importanti per comprendere movimenti e tendenze di società e classe dirigente
Partiamo con i dati di fatto. Il Consiglio dei Guardiani ha eliminato 678 candidature, alla fine di un procedimento legale volto a prevenire “corruzione e deviazione” dall’identità fondante della Repubblica. Le esclusioni che hanno fatto più rumore sono state due: quella di Esfandiar Rahim Mashaei, consuocero e protegé di Ahamdinejad, e quella di Akbar Hashemi Rafsanjani, presidente dal 1989 al 1997. Se la prima decisione era abbastanza prevedibile, alla luce dei rapporti tesi tra l’ayatollah Khamenei e il presidente in carica, il cui nazionalismo è visto come una minaccia verso “l’Islam puro”; il cartellino rosso a Rafsanjani è stata la spia di un potere chiuso in se stesso, desideroso di allontanare chiunque sia in grado di scalfirne i connotati. Rafsanjani non è certo Khatami, l’ex presidente riformista a cui l’Occidente aveva guardato con speranza alla fine degli Anni Novanta, ma è un chierico rispettato, tra i padri fondatori della Repubblica, ed l’uomo che aprì l’Iran al libero mercato. Eppure il sostegno dato nel 2009 all’Onda Verde, il movimento di protesta sceso in piazza per contestare i brogli pro-Ahmadinejad, ha fatto di lui una potenziale minaccia per Khamenei.
Così sono rimasti in lizza otto candidati, poi passati a sei. Saeed Jalili, probabilmente il favorito della Guida, attuale capo negoziatore sul dossier nucleare, da settimane attivissimo su twitter (account @DrSaeedJalili) con un diluvio di messaggi, in inglese e in farsi.
Mohammed Bagher Qalibaf, popolare sindaco di Teheran, in ascesa secondo i (poco affidabili) sondaggi, altro conservatore, come l’ex ministro degli Esteri Ali Akbar Velayati – slogan obamiano “Lo possiamo fare, domani” – e Mohsen Rezaei, a lungo comandante delle Guardie Rivoluzionarie – i celebri pasdaran – sulla lista dell’Interpol dal 2007, per via dell’attentato del 1994 a un centro israelita di Buenos Aires. Accanto ai quattro candidati che professano lealtà assoluta al Leader Supremo, ci sono due moderati, Mohammad Gharazi, vero underdog delle elezioni, e Hassani Rohani, capo negoziatore per il nucleare dal 2003 al 2005. Sono usciti di scena nel corso di questa settimana Gholam Ali Haddad Adel, ex speaker del Parlamento, ritiratosi lunedì, e soprattutto Mohammad Reza Aref, il candidato dal profilo più riformista, vicepresidente durante l’era Khatami, che ha alzato bandiera bianca martedì (e vedremo il perché).
Le regole prevedono il doppio turno e dunque un ballottaggio, il 21 giugno, nel caso in cui nessuno raggiunga la maggioranza assoluta dei consensi. Il voto sarà ratificato solo il 3 agosto, dalla Guida Suprema. Una formalità necessaria a ribadire chi detiene il potere ultimo. La campagna elettorale è stata abbastanza vivace, i dibattiti tra i candidati sono stati trasmessi dalla tv di Stato, anche se negli ultimi anni l’onda lunga della repressione ha ristretto notevolmente la libertà d’espressione: testate chiuse, giornalisti in carcere, accesso alla rete controllato.
Si è discusso soprattutto di economia, perché la classe media arranca e la crescita iraniana langue, malgrado un potenziale enorme, fatto di una popolazione relativamente istruita, ingenti risorse naturali, un’ottima posizione geo-strategica. L’inflazione è al 31,5 per cento, in gran parte conseguenza delle sanzioni votate da Stati Uniti e Ue, in risposta al programma nucleare. Ma nel mirino dei candidati c’è soprattutto la presidenza in carica. È l’inefficiente gestione Ahmadinejad a venire considerata la principale causa della crisi economica. Si invocano privatizzazioni, si fa appello, come sempre, alla battaglia anti-corruzione, ma soprattutto si accusa il presidente di avere dilapidato la rendita energetica. L’unico che, furbescamente, invita a non dipingere a tinte così fosche il quadro della situazione economica iraniana è Jalili. Nessuno dei candidati, invece, mette in discussione il programma nucleare, di cui viene ribadito il carattere “pacifico”, e tutti si tengono alla larga dalla parola “compromesso”, per non apparire troppo arrendevoli.
La grossa incognita è il comportamento dei protagonisti dell’Onda Verde. I due leader del 2009, Hossein Mousavi e Mehdi Karroubi, sono ancora agli arresti domiciliari, Khatami ha deciso di non competere. Uscito di scena Rafsanjani, ai riformisti non restano che due alternative, l’astensione o il voto verso il candidato meno lontano dalle loro posizioni, in questo caso Rohani.
L’astensionismo è un timore reale, infatti le autorità, con una decisione senza precedenti, hanno deciso accorpare le elezioni presidenziali con quelle municipali. Quasi la metà dei 52 milioni di votanti ha meno di 35 anni. Una generazione nata dopo la rivoluzione del 1979, protagonista dell’Onda Verde, ed oggi disincantata, dopo la repressione dello slancio riformista di quattro anni fa.
Chi si recherà alle urne voterà quasi certamente per Rohani, che negli ultimi giorni sta collezionando endorsement dal fronte anti-Khamenei: prima l’ex presidente Khatami, poi lo stesso Rafsanjani. L’obiettivo è quello di convogliare i voti verso il candidato maggiormente in grado di impedire la vittoria dei conservatori. In questo senso va letto l’annuncio del ritiro di Reza Aref, che ha lanciato un appello contro l’astensione: «Il non voto non è una protesta, è una regressione, e i riformisti non arretrano mai». Rohani, ragionano i riformisti, potrebbe porre fine all’isolamento diplomatico iraniano, grazie a un approccio pragmatico, già dimostrato all’epoca della trattativa nucleare.
L’ex capo negoziatore è uscito rafforzato dai dibattiti televisivi e l’elevato numero di candidature del fronte conservatore potrebbe consentirgli di arrivare al ballottaggio. La sensazione diffusa, tra le cancellerie estere, è che queste elezioni non cambieranno il corso della storia. Israele continua a guardare a Teheran con un misto di paura e rassegnazione, e mantiene viva l’ipotesi di uno strike preventivo contro le installazioni atomiche. Gli Stati Uniti, che quattro anni fa non sostennero l’Onda Verde, convinti che un approccio non muscolare avrebbe potuto favorire un accordo sul nucleare, hanno intensificato la pressione diplomatica e finanziaria su Teheran, ma non hanno alcuna intenzione di schierarsi in prima linea, come da weltanschauung obamiana. Anche se del tutto è evidente come un regime change in Iran sconvolgerebbe tutto lo scacchiere medio-orientale e avrebbe enormi conseguenze in Siria, dove la rimonta militare di Assad porta il timbro indiscusso degli ayatollah.
Le elezioni potranno indicare una tendenza, modificare alcuni aspetti del quadro, non l’intero dipinto. Khamenei continuerà ad essere il fulcro del potere. La stessa, improbabile, vittoria di Rohani non sembra una minaccia reale. Senza dimenticare che la Guida Suprema, come qualsiasi arbitro, potrà sempre decidere di marchiare a suo modo il risultato.