Parole associate al neopresidente iraniano Hassan Rohani: “moderazione”, “pragmatismo”, “dialogo”. Mentre da qualche giorno a Teheran gli eroi popolari sono Rahman Ahmadi, portiere, e Reza Ghoochannejhad, attaccante, gli uomini che hanno messo la firma sulla vittoria esterna contro la Corea del Sud, riportando la nazionale a disputare una Coppa del Mondo di calcio dopo otto anni, le cancellerie del pianeta si chiedono cosa uscirà dal turbante bianco del successore di Ahmadinejad.
La scrittrice Azar Nafisi, autrice del fortunato romanzo Leggere Lolita a Teheran, ha parlato della “sindrome del carcerato”: tra il guardiano che non apre mai la finestra e quello che cambia l’aria tutti i giorni, sisceglie sempre il secondo. Alex Vatanka, iraniano di nascita, ricercatore del Middle East Institute, collaboratore di Bbc e Foreign Affairs, risponde alle domande de Linkiesta sulla presidenza Rohani, l’insider del regime che (neanche troppo paradossalmente) ha risvegliato diffuse speranze. I lemmi che bisogna tenere d’occhio sono “miracolo” e “opportunità”.
A Teheran è tornato l’entusiasmo, ma nessunanalista, in Occidente, ha definito Rohani riformista.
E infatti non lo è, la sua biografia è piuttosto chiara. Ma l’intervento di Khamenei, che ha manipolato il risultato delle elezioni attraverso il Consiglio dei Guardiani, ha trasformato un politico piuttosto conservatore nella sola speranza per i riformisti.In fondo, Rohani si è candidato come indipendente.
Quindi l’affermazione secondo cui Khamenei è uscito sconfitto dalle elezioni è un’iperbole?
Sì, è un’esagerazione. Non si può definire Khamenei lo sconfitto del processo elettorale. In primo luogo perché è riuscito a rallentare il sentiero dell’inevitabile riforma, architettando l’esclusione dei centristi, come Rafsanjani, e dei veri, reali, riformisti, alla Khatami. Allo stesso tempo, ora può servirsi di Rohani per prendere le distanze dagli ultimi, disastrosi, otto anni di governo, addossando tutta la responsabilità ad Ahmadinejad.
Ha appena parlato di una riforma inevitabile.
Sì, l’Iran ha la necessità di modificare il proprio atteggiamento sul nucleare senza perdere troppo la faccia. Con l’elezione di Rohani, Khamenei ha acquistato una sorta di “ticket per il cambiamento”, facendo dimenticare che è stato lo stesso Grande Ayatollah, e non solo il presidente Ahmadinejad, a rendere il Paese sempre più isolato dalla comunità internazionale.
D’accordo, ma per rompere l’isolamento bisogna riempire il negoziato di contenuti. Rohani ha già detto che vuole un rapporto più diretto con gli Usa, ma che il programma nucleare va avanti.
Il nuovo presidente non può certamente esordire dicendo “bloccheremo l’arricchimento di uranio” oppure “lo sospenderemo in via temporanea”. Eppure la presidenza Rohani è una grande opportunità per voltare pagina. E quando parlo di voltare pagina, mi riferisco tanto all’Iran, quanto agli Stati Uniti. Fare passi in avanti sulla questione nucleare deve essere una responsabilità condivisa.
Su Foreign Policy Ali Nasr ha sostenuto che tocca agli Stati Uniti fare la prima mossa. Che ne pensa?
Io credo che a Washington alcuni siano convinti che si debba concedere qualcosa all’Iran. Un compromesso già esiste, anche se, purtroppo, è solo sulla carta. Bisogna ammorbidire le sanzioni sulla vendita di petrolio e alleviare la pressione sulla Banca Centrale. È quello che vogliono gli iraniani, ed è quello che gli americani devono concedere.
Il Dipartimento di Stato, però, pur salutando positivamente l’esito delle elezioni, insiste: la palla è in mano a Teheran
Ovviamente l’Occidente, e Washington in particolare, si attende che gli iraniani forniscano quella trasparenza sul programma nucleare che hanno sempre negato. Gli Stati Uniti stanno già preparando un nuovo round di sanzioni. È interesse di tutti che non vedano mai la luce, o che vengano comunque rallentate.
Anche se sono state le sanzioni a causare le difficoltà economiche del Paese, e quindi a spingere gli iraniani a votareil candidato più distante da Khamenei?
Non c’è dubbio che le tribolazioni economiche dell’Iran siano strettamente legate alla politica estera, e dunque alla questione dell’atomo. Qualunque politica economica deve fare i conti con l’ambiente creato dalle sanzioni. Se, però, si vuole trasformare Rohani in una reale opportunità, occorre che ci siano progressi sul fronte nucleare. Opportunità, ripeto, non miracoli, perché a Teheran nessuno, tantomeno Rohani, può produrli.
Twitter: @vannuccidavide