In Iran è cambiato tutto perché nulla cambiasse. Ha vinto le elezioni Hassan Rouhani, chierico sciita di 65 anni, considerato l’unico candidato non conservatore tra i sei in lizza per la presidenza della Repubblica islamica. Ha vinto con il 50,7% dei voti, evitando così di dover sfidare al ballottaggio il secondo più votato, in questo caso il sindaco di Teheran Mohammad Baqer Qalibaf, che si è fermato al 16,5 per cento. L’affluenza è stata molto elevata – secondo i dati diffusi dal ministero degli Interni – e su Rouhani, il candidato “viola”, si sono concentrate oltre 18 milioni di preferenze.
«La teocrazia islamica esce rafforzata – afferma Pejman Abdolmohammadi, docente di storia e istituzioni dei Paesi islamici alla facoltà di scienze politiche all’Università di Genova – da questo risultato elettorale. Alla presidenza va una figura gradita all’establishment e gli oltre 35 milioni di voti espressi legittimano il sistema». Contrariamente a quanto viene spesso detto, Rouhani non è un riformista o un moderato. Molto vicino a Khomeini fin dagli anni Sessanta, si è occupato di “islamizzare” l’esercito dopo la rivoluzione e ha guidato i servizi di intelligence per 16 anni, prima di essere accantonato nel 2005 con l’arrivo di Ahmadinejad. Politicamente appartiene all’ala più dialogante dei conservatori ed è stato “preso a prestito” dai riformisti, che hanno sostenuto la sua candidatura in queste elezioni anche con gli endorsement dei leader Khatami e Rafsanjani.
«La maggior parte dei 18 milioni di elettori che hanno votato Rouhani – prosegue il professor Pejman – sarebbe rimasta a casa se non fosse stato per lui. In campagna elettorale è stato molto abile ad attrarre il voto dei giovani e degli oppositori della Repubblica, accreditandosi come un “critico” del sistema. Il punto è che il sistema gli ha concesso – prima non escludendolo dalla competizione elettorale, poi non censurandolo – quella libertà di critica che ad altri ha negato, proprio perché ha capito di avere bisogno di Rouhani per legittimarsi all’interno e all’esterno del Paese. Diciamo che Rouhani rappresenta il compromesso interno perfetto per il regime: incarna la via di mezzo tra l’ayatollah Khamenei e il riformista Rasfanjani, è membro del clero, vicino ai servizi di intelligence e ai Pasdaran e adesso è legittimato da milioni di voti ottenuti in elezioni “libere” (al netto della selezione preventiva sui candidati) e non viziate da brogli. Certo – conclude Pejman – ora bisognerà vedere come ripagherà il voto dei tanti che hanno riposto le proprie speranze in lui, soprattutto i giovani. Io credo che qualche concessione ci sarà, qualche apertura per rendere meno opprimente la Repubblica islamica, ma non so ancora in che direzione».
Hassan Rouhani
Quando guidava il Consiglio supremo di sicurezza nazionale, Rouhani è stato anche capo delegazione nei negoziati sul nucleare con i Paesi dell’AIEA (Agenzia internazionale per l’energia atomica). L’aver firmato nel 2004 la sospensione del programma atomico gli è valsa una buona reputazione presso le cancellerie occidentali anche se, al momento, la sua elezione non lascia presagire particolari svolte nemmeno sul fronte dei rapporti internazionali. «La politica estera, la difesa, l’intelligence e la questione nucleare – spiega Claudio Neri, direttore scientifico dell’Istituto italiano di studi strategici Niccolò Machiavelli – vengono decise dalla Guida Suprema, Khamenei, e non dal presidente. Rouhani probabilmente non utilizzerà i toni esasperati di Ahmadinejad, ma non ha né la volontà né il ruolo adatto per determinare una forte discontinuità nella sostanza. E se non cambia l’atteggiamento iraniano sulla questione dell’atomica, le sanzioni resteranno e in generale il quadro delle relazioni internazionali non dovrebbe cambiare».
L’Iran sta attraversando una pesante crisi economica, di inflazione e di disoccupazione. Le cause sono diverse ma principalmente riconducibili alle pesanti sanzioni imposte al Paese. Per allentarle – come detto – sarebbe necessaria una marcia indietro, che per ora non è all’orizzonte, sul programma nucleare. La mossa del regime di presentarsi col volto dialogante di Rouhani potrebbe servire a strappare alcune concessioni economiche e a guadagnare tempo, come da tradizione delle relazioni diplomatiche del Paese. Fu proprio Rouhani nel 2006 a dichiarare che la sospensione del programma, avvenuta pochi anni prima, era servita «per completare, in un clima di calma internazionale, il nostro lavoro sull’uranio nella centrale di Isfahan». Ora che il traguardo dell’atomica pare vicino la politica delle continue accelerazioni e frenate potrebbe ricominciare.
«Nel marzo di quest’anno – prosegue il dottor Neri – il presidente Obama ha sostenuto, in un’intervista alla tv israeliana, che all’Iran serve ancora un anno o poco più prima di avere le capacità di assemblare un’arma nucleare. Una volta superata questa “soglia” (o “break-out capability”) non è possibile prevedere quanto tempo servirebbe prima della effettiva costruzione di un ordigno. Obama ha fatto chiaramente capire che gli Stati Uniti non potrebbero mai accettare che la soglia venisse varcata, ma Israele – marcando la distanza da Washington su questo punto – preferirebbe intervenire prima, per evitare che l’Iran a quella soglia si avvicini troppo».
Le possibilità di un intervento sono per ora scarse, considerato che le conseguenze sarebbero imprevedibili e secondo alcuni potenzialmente anche negative per gli alleati occidentali. Il progredire del programma nucleare iraniano è però un elemento che surriscalda la situazione e non è detto che Rouhani, specie se si accontentasse di fare da “pannicello caldo” alla teocrazia, sia in grado di impedire che degeneri.
Twitter: @TommasoCanetta