L’idea è buona, ed è bene che se ne parli. Fabbrica di Carta, appena edito da Laterza, racconta la storia dell’industria italiana, dagli anni ’30 fino a oggi, in un’antologia di passi e racconti di scrittori. La scelta è stata curata da Giuseppe Lupo, docente di letteratura italiana all’Università Cattolica di Milano (autore anche di quattro romanzi, e finalista al Campiello 2011), e Giorgio Bigatti, che insegna invece Storia Economica in Bocconi. C’è anche una prefazione di Alberto Meomartini, presidente di Assolombarda e una introduzione di Antonio Calabrò.
Dal punto di vista editoriale, per l’Italia, è la prima volta. «Un vuoto che si colma – spiega Lupo – anche perché l’industrializzazione, qui, è cominciata davvero solo negli anni’40». Attraverso queste pagine si vede il racconto «di un’Italia che si trasforma: un paese contadino che in pochissimi anni diventa una delle potenze industriali del mondo, che cambia nel profondo delle sue abitudini». E con la letteratura si riesce a cogliere la metamorfosi «antropologica, ma anche e soprattutto linguistica con cui vengono descritti certi temi». Succede così che la parola “fabbrica” conosca una sua gloria e una sua decadenza, che “operaio” faccia strada a “precario”, che il lavoro non sia associato solo alla “vita” ma anche alla “morte”, «come è il caso dell’Italsider di Taranto, tema di attualità».
I protagonisti sono «senza dubbio le tute blu, gli operai, visti non solo sul lavoro e nelle lotte sindacali, ma anche alle prese con il fascino dei primi beni di consumo, con la conquista di un nuovo status che passa attraverso le lambrette e i film». Ma ci sono anche gli intellettuali, sia quelli che ci hanno lavorato, nelle fabbriche, «sia quelli che con le “visite in fabbrica”, organizzate dagli house organ delle aziende (uno per tutti: Il gatto selvatico dell’Eni), incontravano questi mondi. «E questi spesso erano vittime dell’ideologia: partivano da una prospettiva marxista e da questa traevano le loro conclusioni: spesso negative, in cui la fabbrica diventava luogo di alienazione e sfruttamento», anche se in qualche caso «ne coglievano anche il lato positivo, di emancipazione e conquista di dignità sociale attraverso il lavoro». In questo senso, spiega sempre Lupo, «si distingue con una certa nettezza la narrazione letteraria da quella cinematografica, che invece si è servita anche di rappresentazioni ironiche, o picaresche».
Intorno, oltre alle condizioni di vita della fabbrica, i cambiamenti della città. «Una trasformazione che investe le periferie, crea nuovi quartieri, nuovi modi di vivere e di intendere i paesaggi urbani». Passano in rassegna Sesto S. Giovanni, Arese, Ivrea. I panorami industriali italiani, abitati e vissuti da operai che ogni ora che riescono a trovare fuori dal lavoro, fuggono in città a divertirsi. Una rivoluzione, fondamentale, accompagnata dalle lotte sindacali («dentro c’è anche Nanni Balestrini, con Vogliamo tutto») e da nuove visioni del mondo.
Il passo più antico è tratto da Tre operai, di Carlo Bernari, pubblicato nel 1934 e si conclude con un estratto da Massimiliano Santarossa, (Viaggio nella notte, del 2012). Ci sono anche testi poetici. Oltre ad autori celebri come Lucio Mastronardi, Giovanni Giudici, da Ottiero Ottieri a Leonardo Sinisgalli, daFranco Fortini a Paolo Volponi e Nanni Balestrini, da Elio Vittorini a Luciano Bianciardi, da Carlo Emilio Gadda a Italo Calvino, Primo Levi e molti altri.
Leggi gli estratti:
Ottiero Ottieri
Donnarumma all’assalto (1959)
Quando il presidente di questa società metalmeccanica scese all’inaugurazione dello stabilimento di Santa Maria parlò da qui, dall’angolo del ballatoio sopra la gente ammassata nel centro dell’officina, le macchine ferme. Ora, se mi sporgo, nessuna delle teste chine osserva me dalle quattro braccia della croce; sono io che guardo dentro al fragore. Allora c’era un gran silenzio. Disse con la sua voce fredda e rapida: «Così, di fronte al golfo più singolare del mondo, questa fabbrica si è elevata, nell’idea dell’architetto, in rispetto alla bellezza dei luoghi e affinché la bellezza fosse di conforto nel lavoro di ogni giorno». Nessuno ne rise.
L’oratore era molto ritenuto e usava il tono di chi legge: «Abbiamo voluto anche che la natura accompagnasse la vita nella fabbrica. La natura correva il pericolo di essere ripudiata da un edificio troppo grande, nel quale le chiuse muraglie, l’aria condizionata, la luce artificiale, avrebbero tentato, direi, di trasformare giorno per giorno l’uomo in un essere diverso da quello che vi era entrato, pur pieno di speranza».
Pur pieno di speranza. La frase correva dalla testa del direttore, a quella di Di Meo, di Ripamonti, di Straniero; dalla testa saggia e aziendale dell’operatore capelluto del montaggio, a quella balzana del manovale della stagionatura – non lo avevano relegato ancora nel fondo del magazzino – a quella tonda di Bonocore.
«La fabbrica fu quindi concepita» filava in modo atono dalla bocca del presidente «sulla misura dell’uomo… Sulla misura dell’uomo, perché questi trovasse nel suo ordinato posto di lavoro uno strumento di riscatto e non congegno di sofferenza. Per questo abbiamo voluto le finestre basse e i cortili aperti e gli alberi nel giardino ad escludere definitivamente l’idea di una costrizione e di una chiusura ostile».Disse poi, sempre calmo: «…Voglio alludere all’ammirevole città di Santa Maria e ai suoi ineguagliabili dintorni…». Quelli di città si abbuiarono brevemente. Egli continuava a sciogliere il suo ragionamento, suo, non preso in prestito, che non ci gettava addosso come un insidioso lenzuolo: «L’uomo strappato alla terra e alla natura dalla civiltà delle macchine ha sofferto nel profondo del suo animo e non sappiamo nemmeno quante e profonde incisioni, quante dolorose ferite, quanti irreparabili danni ne siano occorsi nel segreto del suo inconscio».
Bisbigliai a Ripamonti, fiero in quel giorno, sentimentale benché lombardo, che l’uomo sul ballatoio era l’unico presidente, e uno dei pochi ingegneri d’Italia, che credesse nella natura e nell’inconscio. Ripamonti si compiacque.«Abbiamo lasciata, in poco più di una generazione, una millenaria civiltà di contadini e di pescatori. Per questa civiltà che è ancora la civiltà presente nel mezzogiorno, l’illuminazione di Dio era reale e importante; la famiglia, gli amici, i parenti, i vicini erano importanti; gli alberi, la terra, il sole, il mare, le stelle erano importanti».
Forse egli non immaginava quanto lo temessimo e insieme avessimo bisogno di nutrire fiducia in lui; necessità di saperlo diverso dal mondo che lo esprime, il mondo dei puri profitti, senza inconscio e senza stelle.
[Donnarumma all’assalto, Garzanti, Milano 2004, pp. 116-118]
Giovanni Giudici
Se sia opportuno trasferirsi in campagna (1961)
Alienazione
Mi chiedi cosa vuol dire
la parola alienazione:
da quando nasci è morire
per vivere in un padroneche ti vende – è consegnare
ciò che porti – forza, amore,
odio intero – per trovare
sesso, vino, crepacuore.Vuol dire fuori di te
già essere mentre credi
in te abitare perché
ti scalza il vento a cui cedi.Puoi resistere, ma un giorno
è un secolo a consumarti:
ciò che dài non fa ritorno
al te stesso da cui parte.È un’altra vita aspettare,
ma un altro tempo non c’è:
il tempo che sei scompare,
ciò che resta non sei te.
[Se sia opportuno trasferirsi in campagna, «il menabò», 4, 1961, p. 197]
Giancarlo Buzzi
L’amore mio italiano (1963)
Quando volevamo una donna senza tribolare ci rivolgevamo ai capireparto. Combinavamo delle sortite alla buona, con dei programmi assai poco variabili e dei finali eguali. Le ragazze non chiedevano nulla ma preferivano essere accompagnate nel capoluogo, in un locale notturno. Per quanto triste fosse, gli dava l’impressione di penetrare in un mondo nuovo. Dopo facevano l’amore senza storie, con deliberata energia. Ammiravo molto l’energia e l’adattabilità con cui si muovevano nelle posizioni più scomode. Non erano ragazze appiccicose né occorreva rivederle dopo il primo incontro. Quegli incontri del resto non lasciavano in loro nessuna traccia: non imparavano a far l’amore con più delicatezza, conservavano le stesse aspirazioni alla decenza e al benessere, si attenevano rigorosamente al codice di costume imposto o suggerito dall’ambiente.
Nei reparti, quando le ragazze erano curve sui banchi e ci scrutavano di sottecchi continuando, senza bisogno di posarvi lo sguardo, a infilare nel punto giusto e a girare le viti con l’avvitatore pneumatico, i capireparto ce le indicavano protendendo il mento. Da dentro il bugigattolo di vetro e faesite, coi volti lustri sopra i grembiali neri da fatica, le passavano in rassegna, ci mettevano in guardia contro quella che, cristo, ci sapeva fare, ma bisognava starci attenti perché il giorno dopo le sue compagne sapevano persino con che ritmo uno respirava mentre faceva quella cosa. Si sarebbe potuto credere che la fabbrica fosse una fabbrica normale, con operai sotto il giogo e capi prevaricatori. Ma i capi erano gentili e cautelosi, mentre passavano in rassegna le ragazze. Non ne parlavano in termini offensivi o di dileggio. Erano brave ragazze molto igieniche; i loro salari erano il doppio dei salari maschili in altre fabbriche di località vicine e la loro fiducia nella vita disarmante e riposante.
Si vestivano abbastanza elegantemente e con buon gusto. Qualche volta ce lo facevano notare, di non essere peggio vestite delle impiegate, loro consueto termine di paragone. In genere non accudivano a lavori pesanti, ma a leggeri lavori di montaggio, e le loro mani erano curate. Talvolta, nei reparti, si accapigliavano per questo o quell’uomo e si dicevano volgarità. Ci si divertivano, come a raccontarsi le storie dei cineromanzi. Non erano soddisfatte dei loro uomini, sebbene finissero per sposarli. Non ci pensavano troppo, ma la loro insoddisfazione era evidente. Tirate alle confidenze dicevano, in sostanza, che non c’era gusto: i loro uomini facevano l’amore troppo in fretta. Non facevano in tempo a cominciare che già finivano. Una donna rischiava di non accorgersene, tanto accadeva in fretta.
Nei locali notturni non ci facevano sfigurare. Ballavano compostamente e bevevano con parsimonia.
Andavamo di tanto in tanto anche con le impiegate, e non era gran che diverso. C’erano delle sfumature di cerimoniale da rispettare e delle lievi varianti di programmazione. Erano più economiche, di massima, perché non era necessario portarle nei locali notturni. Per nostra fortuna erano sensibili al fascino delle rive lacustri e dei recessi boscosi. Se vivevano sole, o comunque non in famiglia, organizzavano volentieri festicciole.Ogni tanto, quando passavano nel corridoio, facevano una puntata nel nostro ufficio, ritirandosi con tatto se c’erano estranei. Mettendo dentro la testa ostentavano gentili smorfiette e fattezze ridenti. Facevano le fusa ai complimenti, senza mai impressionarsi per la vanità dei medesimi. Per lo più erano segretarie, e si bagnavano nella luce dei loro capi: tanto più raggianti – e seducenti – quanto più elevato nella gerarchia era il capo.
Affettavano comunque un tono cameratesco, frenavano accuratamente gli scatti di nervi e si sforzavano di serbare compostezza in ogni circostanza. I loro desideri sensuali erano disciplinati, smussati dalla sicurezza di una sempre disponibile soddisfazione. Quando erano decisamente di malumore, alle prese con la noia, si sfogavano con vocine querule e con vocabolario ineccepibile, evitando però di accusare il destino. Regnava in tutte, ben radicata, la convinzione d’esser fortunate. La città, e la fabbrica nella città, le aveva conquistate.
[L’amore mio italiano, Mondadori, Milano 1963, pp. 17-20]