Prima l’euforia, poi il timore. Infine, una speranza: che tutto quanto fatto finora funzioni. La strategia economica di Shinzō Abe, primo ministro giapponese, si basa su questi tre sentimenti. «Stiamo facendo, e faremo, tutto il possibile per rilanciare il Paese», disse Abe. In effetti, è vero. Per definire il nuovo corso della politica monetaria nipponica è stato perfino coniato un termine: Abenomics. Se in un primo periodo gli effetti sembravano essere positivi, ora sta crescendo la paura che possa essere l’ennesima bolla pronta a scoppiare. Le tre frecce nell’arco di Abe – allargamento della base monetaria, investimenti strategici a pioggia, un piano per la crescita economica – hanno fatto ben presto breccia nel cuore degli investitori. Del resto, è facile innamorarsi di una politica monetaria simile. Poi, qualcosa è cambiato.
Quando nei mesi scorsi Abe rivelò le sue idee per stimolare l’economia giapponese, il suo ministro delle Finanze Taro Aso non si comportò secondo le aspettative. Smessi i panni del tipico giapponese freddo e calcolatore, Aso disse ai reporter che era appena sbocciata una «vera e propria rivoluzione» nella politica economica mondiale. I dettagli del piano di Quantitative easing (Qe), ovvero di espansione monetaria, varato dal Giappone meritavano una reazione analoga. L’Abenomics prevede il raggiungimento di un tasso d’inflazione del 2 per cento, il doppio del normale, con l’obiettivo di allargare la base monetaria, da 135.000 miliardi di yen a 270.000 miliardi nel 2014, ovvero da 1.430 miliardi di dollari a 2.860 miliardi.Per fare ciò, il governatore della Bank of Japan Haruhiko Kuroda ha lanciato un programma di acquisto illimitato di bond governativi a lungo termine per circa 60-70 miliardi di yen per ogni anno fino al 2014. Traduzione: 645 e 755 miliardi di dollari, al cambio di aprile, quando lo yen non era vicino a quota 95, come oggi. Inoltre, via libera anche all’acquisto di Exchange-traded fund (Etf), i fondi negoziabili come azioni.
Tutto bene, fino a quando gli investitori non hanno cominciato a credere meno nella potenza di fuoco del Giappone, fortemente collegata anche alla politica monetaria della Federal Reserve statunitense. Arrivano i crolli sul Nikkei, il principale indice azionario giapponese, lo stress dei bond governativi nipponici, e nella mente degli operatori entra l’idea che l’Abenomics possa non essere la soluzione più corretta per far ripartire la macchina giapponese. Se a questo quadro di diffidenza si aggiungono i dubbi di alcuni banchieri, la frittata è fatta. Il membro del board della Bank of Japan Sayuri Shirai ha infatti sottolineato che, almeno nel breve termine, ci sono diversi rischi al ribasso per l’economia nipponica. Non solo. «La pressione sui titoli di Stato giapponesi sui mercati obbligazionari si è fatta sempre più intensa, ma noi monitoriamo la situazione in modo preciso e accurato», ha detto Shirai. La troppa volatilità, sia sull’azionario sia sull’obbligazionario, è un rischio che però si deve correre. E Kuroda è pronto a combattere, come ha ripetuto durante la settimana: «Siamo pronti a valutare la possibilità di estendere la durata delle operazioni di mercato a tasso fisso se ci sarà il bisogno di arginare un eccessivo aumento dei rendimenti obbligazionari». Parole che hanno tranquillizzato gli operatori e che confermano la volontà del Giappone a continuare con questa via per tutto il tempo necessario.
Ciò che gli investitori hanno iniziato a comprendere è che l’Abenomics non può essere né per sempre né illimitata. Allo stesso modo, non è possibile che ci siano stupefacenti effetti nel breve periodo. È una questione di prospettive. Giappone e Stati Uniti stanno avendo un approccio contro la crisi completamente diverso da quello tenuto dall’eurozona. Tanto nell’area euro si sta guardando al consolidamento fiscale nel breve periodo, quanto in Usa e Giappone si guarda all’espansione economica tramite misure di allentamento quantitativo. Questo non significa tuttavia che i problemi delle due maggiori economie mondiali siano risolti. Anzi. Tramite l’iniezione forzosa di liquidità, gli operatori finanziari sono stati drogati. L’eroina di Federal Reserve e Bank of Japan ha provocato la cosiddetta “Great rotation” fra le diverse classi di asset, da obbligazioni ad azioni, sull’onda delle nuove condizioni di politica monetaria.
Fino a che punto può essere efficace questa strategia nel lungo periodo? Difficile dirlo. Quello che è certo è che lentamente, ma con una consapevolezza crescente, gli investitori devono rendersi conto che nulla è per sempre. Non lo sono i rally su S&P 500, né quelli sul Dow Jones o sul Nikkei. Non è per sempre quindi la straordinaria condizione della liquidità a livello globale. La Federal Reserve non potrà continuare a sostenere l’economia in eterno, come la Bank of Japan una volta perseguito il suo obiettivo di inflazione dovrà necessariamente ritracciare la propria politica economica.
Shinzō Abe (Afp)
L’universo finanziario a quel punto dovrà assumere ingenti dosi di metadone al fine di evitare shock. In un mondo ancora scosso dal crac di Lehman Brothers, il problema non è la liquidità. Quella abbonda. Ma come in tutte le occasioni, l’eccesso di un bene può causare squilibri difficili da ribilanciare. È per questo che l’exit strategy dal Quantitative easing dovrà essere graduale. Come ha spiegato Goldman Sachs in una nota, il mondo governato dal Qe ha bisogno di tempo per cambiare mentalità. «Gli investitori dovranno avere il tempo di trovare delle soluzioni alternative, e per ora le banche centrali sembrano aver capito che chiudere del tutto i canali di liquidità non è la soluzione migliore», ha scritto la banca americana.
Lo stesso concetto dovrà essere replicato con il Giappone. Non devono allarmare i crolli del Nikkei di questi giorni. L’obiettivo della politica di Abe non guarda al breve termine. È proiettata sul lungo periodo. Di fronte alla decennale stagnazione economica del Paese, è possibile che solo tramite investimenti copiosi e un nuovo target d’inflazione possa dare una scossa. Ne è convinta Morgan Stanley, certa che «il Pil giapponese trarrà diversi vantaggi dall’Abenomics, ma solo a partire dal 2014». Ne è convinto anche Alessandro Fugnoli, strategist di Kairos, che non ha dubbi: «Verso la fine dell’anno, con i mercati ripuliti dagli eccessi, inizieremo a guardare al 2014. L’anno prossimo apparirà allora nel suo aspetto più positivo ovvero la fine praticamente contemporanea, in Europa e in America,
dell’aumento della pressione fiscale. Questo regalerà un punto di crescita al Pil delle due aree. L’Asia, dal canto suo, vedrà i benefici del grande Qe giapponese». Forse solo in quel caso si potrà pensare con velo di cauto ottimismo alla congiuntura economica internazionale.
Il primo test sul grado di dipendenza degli investitori dal Quantitative easing globale ci sarà fra pochi giorni. Il 18 e 19 giugno, infatti, la Federal Reserve si riunirà per aggiornare le strategie di politica monetaria. È possibile che ci sia un rallentamento dell’acquisto di Treasury, per ora fissato a 85 miliardi di dollari al mese. Del resto, le condizioni in cui versa l’economia statunitense iniziano a essere tali da poter pensare a una politica meno aggressiva. «Doveva esserci uno stimolo economico e questo c’è stato, ora si può iniziare a ridurre gradualmente l’apporto di liquidità», ha detto il numero uno della Fed di Dallas, Richard Fisher, che ha messo in guarda Ben Bernanke sull’uso prolungato del Qe. «Rischia di creare distorsioni ben peggiori di quelle che si cerca di combattere con l’allentamento quantitativo, oltre che c’è il concreto rischio di un’impennata dell’inflazione», ha detto Fisher, uno dei più critici banchieri centrali in merito all’uso di questo genere di politiche. Tutto il contrario di quanto spiegato da James Bullard, presidente della Fed di St. Louis, che non ha escluso un incremento del Qe statunitense, a patto che lo si faccia «regolando la velocità degli acquisti in modo adeguato alla luce dei dati in arrivo sia dall’andamento dell’economia che dall’inflazione». Raccomandazioni che devono essere utili anche al Giappone di Abe.
In un mondo in cui la droga monetaria è diventata il pane quotidiano, il problema non è l’uso del Quantitative easing. Semmai, è l’effetto che può avere in un sistema finanziario che non solo non ha ridotto gli eccessi scoppiati fra 2006 e 2007, ma li ha portati all’estremo, trasferendo rischi e non mitigandoli. Un paradosso tanto pericoloso quanto assurdo. Secondo J.P. Morgan grazie a Federal Reserve, Bank of England e Bank of Japan non c’è mai stata così tanta liquidità come in questo momento storico. Ma se la liquidità serve – in molti casi ma non in tutti – a risanare le perdite subite dall’universo bancario dopo l’esplosione della bolla subprime, almeno tre saranno gli effetti: un rimpolpamento di istituti finanziari che si sono assunti troppi rischi e che non avranno l’occasione per ripulirsi i bilanci, l’incremento dell’azzardo morale, la rottura del canale di trasmissione della politica monetaria verso un’economia reale sempre più soffocata. In altre parole, uno scenario ancora più spaventoso di quello del mondo pre-Lehman Brothers.