Le cinque incognite globali all’ombra della crisi

La lunga estate calda

Sono cinque le incognite globali che rischiano di rendere bollente sia l’estate sia l’autunno. In un mondo che ancora fatica a trovare un equilibrio dopo la crisi finanziaria scoppiata nel 2007, il rischio concreto è che l’attuale quadro di precaria stabilità possa essere rotto in poco tempo. La cristallizzazione della situazione non deve essere fuorviante. Il merito è delle banche centrali, che stanno pompando di liquidità i mercati finanziari. Ma i problemi che c’erano, continuano a esserci.

Federal Reserve. La banca centrale americana è stata chiara: il periodo di vacche grasse è destinato a finire. Piano piano, la liquidità erogata tramite i tassi d’interesse al minimo storico e i tre diversi round di Quantitative easing (Qe) sarà ritirata. Gradualmente, ma sarà comunque ritirata. Cosa succederà dopo? Nessuno lo sa. E chi prova a spiegarlo corre il pericolo di toppare in modo significativo. La prima reazione dei mercati finanziari è stata un ritorno della volatilità, fattore che potrebbe accompagnare gli operatori per tutta l’estate. Non è un caso che l’indice Vix, che fa riferimento al S&P 500, sia aumentato del 37,55% negli ultimi tre mesi e del 28,75% dall’inizio dell’anno. Non ci sono ancora i segnali di stress osservati negli scorsi anni, ma è il sintomo che qualcosa è mutato. L’enorme mole di liquidità erogata dal 2007 a oggi, circa 1.500 miliardi di dollari solo dalla Federal Reserve, è servita a evitare shock sistemici e a non peggiorare la situazione globale. Ma, allo stesso tempo, gli investitori sono stati abituati a questa nuova normalità. La droga è stata iniettata e il rehab sarà difficile. Ecco perché il nervosismo potrebbe farla da padrone, almeno fino al 2014. Poi, sarà compito del successore di Bernanke a dover trovare la quadratura della politica monetaria del dopo-Qe. 

Eurozona. I problemi che affliggono l’area euro non sono magicamente scomparsi. Anzi. Sono solo stati procrastinati. Il mantra ripetuto dai policymaker europei è uno solo: il prossimo passo per la risoluzione della crisi è l’unione bancaria. Non ci sono altre strade. Il percorso però è pieno di ostacoli. Lo si è visto la scorsa settimana, con il fallimento sull’accordo sui meccanismi di risoluzione bancaria, atteso per questa settimana. Colpa delle divergenze senza fine fra i Paesi membri dell’eurozona. In più, con una recessione più lunga del previsto, a cui farà seguito una stagnazione di cui non si conosce l’entità, sarà sempre più complicato continuare con il processo di riforme che, volente o nolente, l’eurozona dovrà adottare. Del resto, come ricorda la Banca dei regolamenti internazionali nel suo rapporto annuale, per molti Stati dell’area euro (fra cui Italia, Germania e Francia) il consolidamento fiscale deve ancora continuare, al fine di portare entro il 2040 il rapporto debito/Pil entro quota 60 per cento. È difficile che prima dell’autunno cambi qualcosa. Non prima, quindi, delle elezioni tedesche, in cui Angela Merkel sembra essere in vantaggio rispetto al candidato socialista Peer Steinbrück. Solo dopo si capiranno due cose. Da un lato, se il gioco della Banca centrale europea (Bce) potrà durare: il ritorno della volatilità sul mercato obbligazionario, atteso dalla maggior parte degli operatori finanziari, sarà la prova del nove per le Outright monetary transaction (Omt), lo scudo anti-spread. Dall’altro, si potrà capire che direzione prenderà la riforma dell’unione economica e monetaria, dopo mesi di letargia. La speranza è che entro il 2015 ci possa essere uno schema definito di cosa sarà l’eurozona. 

Cina. Ogni anno, puntuale come un orologio svizzero, si torna a parlare degli squilibri dell’economia cinese. A differenza delle altre volte, tuttavia, non ci sono mai stati così tanti osservatori critici e pessimisti nei confronti della tigre asiatica per eccellenza. Goldman Sachs ha ridotto le stime di crescita di Pechino. Se fino a ieri la banca americana stimava un Pil in salita del 7,8% per l’anno in corso e dell’8,4% nel 2014, ora le previsioni sono state ridotte a 7,4% e 7,7% rispettivamente. Goldman Sachs si accoda quindi a HSBC, Morgan Stanley e UBS, che già avevano posto dubbi sulla tenuta della Cina. Sono tre i principali problemi che affliggono la seconda economia globale: l’opacità del sistema interbancario, il lento processo di diversificazione dei fattori produttivi, una riduzione della competitività cinese, come ricordato dall’Harvard business review a inizio anno. E non è un caso che negli ultimi giorni sia intervenuta a parole (e tramite un taglio dei tassi d’interesse per alcune banche) la banca centrale cinese, la People’s Bank of China, ricordando al mondo che non c’è un problema di liquidità per il sistema bancario locale. Per ora.

Regolamentazione finanziaria. L’esplosione della bolla immobiliare statunitense, fra 2006 e 2008, ha scoperto il vaso di Pandora della finanza mondiale. Troppi rischi sono stati assunti, troppe mistificazioni sono state effettuate, troppe asimmetrie. A distanza di sei anni da quel maledetto agosto in cui la banca francese BNP Paribas bloccò tre suoi fondi (Parvest Dynamic Abs, Bnp Paribas Euribor, Bnp Paribas Abs Eonia), poco è cambiato. Secondo l’ultimo rapporto del Financial stability board (Fsb), nel 2011 il valore degli asset degli intermediari finanziari non bancari, o Non-bank financial intermediaries (Nbfi), ha superato i livelli del 2007. Per la precisione, 67.000 miliardi di dollari contro 62.000 miliardi. Nonostante l’arrivo imminente di Basilea III, più la nuova regolamentazione MiFID (Markets in Financial Instruments Directive) e il cosiddetto nuovo corso della finanza globale, l’impressione è che si stia ancora navigando a vista. Il Dodd-Frank Act, ovvero la riforma finanziaria voluta da Barack Obama dopo il crac Lehman Brothers, ha avuto un significato impatto mediatico, ma nella realtà è cambiato poco. I capitali si sono solamente spostati, andando verso l’Asia o forse aree ancora più opache. I rischi sono rimasti.

Tensioni sociali a livello globale. Dalla Primavera araba alle proteste in Turchia e in Brasile, la costante è una: un generale sentimento di stress. Nonostante siano diverse l’una dall’altra, queste manifestazioni sono il frutto di una società in fermento, con la voglia intrinseca di ottenere nuovi diritti. «L’atmosfera mondiale si sta surriscaldando oltre ogni ragionevole limite», ha scritto il think tank Council on foreign relations (Cfr) nelle ultime settimane. E come se non bastasse, ci sono nubi oscure all’orizzonte. Se per ora, tranne pochi casi, il mondo occidentale è stato solo lambito da questi tumulti, la situazione è destinata a peggiorare. Colpa della crisi, che ha messo in luce i limiti dei sistemi di welfare delle economie sviluppate e ha amplificato lo squilibrio fra diritti acquisiti, demografia e risorse esistenti. Il rischio, come ricordato dal Brookings Institution, è che il clima di proteste si tramuti in shock esogeni per l’economia globale, limitandone il potenziale di crescita. In particolare, potrebbero esserci risvolti sul prezzo delle materie prime alimentari, ma anche su prezzi dei beni energetici. Per la serie: nuovi pericoli, nuovi squilibri. 

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