L’Italia e gli altri Pigs: la religione della tangente

Un confronto internazionale. A pesare è anche il ruolo storico della Chiesa

«Nell’Europa di oggi la corruzione è la più grande minaccia individuale alla democrazia. Sempre più persone nel nostro continente stanno perdendo fede nello stato di diritto». A dirlo, nel gennaio del 2013, è stato il segretario generale del Consiglio d’Europa, il norvegese Thorbjørn Jagland. Difficile dargli torto. Soprattutto considerando che i Paesi più corrotti d’Europa sono spesso anche democrazie in crisi. O non sono affatto democrazie (è il caso, ad esempio, della Russia di Vladimir Putin, dove la corruzione pesa, secondo le stime, per oltre il 20% del PIL).

Portogallo. Italia. Grecia. Spagna. Le iniziali di queste quattro nazioni formano l’odioso acronimo PIGS (che in origine includeva anche l’Irlanda). Usato da certa stampa, soprattutto anglosassone, per identificare in modo spiccio le fragili economie dell’Europa del sud. Quelle, in poche parole, responsabili della crisi dell’eurozona. Certo, si tratta di semplificazioni. La Lombardia che produce sembra avere poco a che spartire con il turistico Algarve; all’apparenza una metropoli globale come Barcellona dista anni-luce dal caos di Atene. Tuttavia qualcosa di vero, nell’acronimo PIGS, c’è. Crisi economica a parte, i Paesi citati hanno anche altro in comune. Ad esempio classi dirigenti in gran parte corrotte. La Milano degli scandali è davvero così diversa da Lisbona? La Catalogna clientelare non ha proprio nulla in comune con la Grecia? E considerando che ogni giorno, sui giornali dell’Europa meridionale, appare il nome di questo o quel politico accusato di corruzione, sono davvero così incomprensibili i trionfi elettorali delle forze più populiste e anti-sistema?

Alla fine c’è il pericolo di considerare la corruzione come una cifra culturale dell’intera Europa del sud. E di cadere negli stereotipi di certi tabloid nordici, che descrivono italiani, greci e spagnoli come un’accozzaglia di fannulloni dediti alla crapula e alla tangente. Quando poi si realizza che i PIGS sono tutti cattolici (fuorché la Grecia ortodossa), mentre le nazioni meno corrotte al mondo sono tutte protestanti (eccetto Singapore), il rischio di determinismo culturale diventa più concreto che mai.

«Il clientelismo e una cultura politica neopatrimonialista sono una caratteristica dei Paesi dell’Europa mediterranei. Nei Paesi cattolici la religione conta come un importante fattore per spiegare i comportamenti di voto e la cultura politica dominante. – spiega Luís de Sousa, ricercatore dell’Instituto de Ciências Sociais dell’Università di Lisbona nonché presidente della sezione portoghese di Transparency International – Comunque, non vorrei attribuire eccessivo rilievo alla religione, a scapito di altri fattori strutturali che potrebbero influenzare il modo in cui le persone percepiscono e interagiscono con la corruzione. Si dice che le nazioni meno corrotte al mondo sono protestanti, ma se si guarda in fondo alla classifica si noteranno molti Paesi subsahariani che furono colonizzati da Paesi protestanti».

Di avviso non diverso il professor Gianfranco Pasquino, docente presso il Bologna Center della School of Advanced International Studies della John Hopkins University. «La religione di certo conta, però ad esempio i cattolici dei Paesi a maggioranza protestante non sono più corrotti dei loro concittadini luterani o calvinisti. È quindi la struttura complessiva del sistema a pesare. Forse più che la religione, gioca un ruolo importante l’atteggiamento della Chiesa verso la corruzione. La Chiesa l’ha tollerata per troppo tempo, ritenendo i peccati di sesso più gravi di quelli di denaro».

D’altra parte proprio in un Paese profondamente cattolico, l’Irlanda (in passato membro dell’acronimo PIIGS), è stata escogitata una soluzione alquanto insolita per contrastare clientelismo e legami tra politica e finanza: far dirigere agli stranieri le banche locali, responsabili della crisi finanziaria che ha investito la nazione nel 2008. E così il britannico Matthew Elderfield, ex capo della Bermuda Monetary Authority, è stato scelto come capo dell’autorità di vigilanza finanziaria presso la Banca Centrale d’Irlanda. Secondo il Financial Times, che ha dedicato un articolo all’argomento, «nominare uno straniero a una carica così importante è stato un momento di grande svolta per l’Irlanda, una piccola nazione dove i legami familiari, le connessioni politiche e il clientelismo hanno dominato il settore finanziario».

Elderfield è in buona compagnia. Il vicegovernatore della Banca Centrale d’Irlanda, Stefan Gerlach, è svedese, così come il capo economista Lars Frissell. Insomma, a Dublino è sembrata una buona idea sfruttare la fama di onestà degli scandinavi per ridare un po’ di smalto etico al dissestato sistema bancario. Chissà se l’idea potrebbe essere importata, con qualche miglioria, nell’Europa del Sud… magari far governare la Grecia, e certe regioni italiane o spagnole, a qualche tecnocrate nordico. In fondo Danimarca, Finlandia e Svezia sono al primo, secondo e quarto posto nella classifica di Transparency International. Per loro una società senza corruzione è possibile. 

In alto la mappa, a livello mondiale, del Corruption Perception Index. Sotto, i risultati dei paesi Ocse fra cui Spagna 21esima; Portogallo 23esimo; Italia 32esima; Grecia 33esima
(fonte: Transparency International)

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Grecia

Per una crudele ironia della storia, nell’Unione europea la nazione più corrotta di tutte è la Grecia, culla della democrazia occidentale. O almeno così risulta dall’indice di percezione della corruzione elaborato da Transparency International. La Grecia riesce a fare peggio persino di nazioni dal passato travagliato come la Colombia o lo Swaziland. «La corruzione è il cancro di questa repubblica – dice a Linkiesta, esasperato, un imprenditore di Salonicco che preferisce non rendere pubblico il suo nome – I politici e gli amministratori che abbiamo fanno schifo, quasi tutti almeno. Come posso mandare avanti la mia impresa quando ogni giorno ho a che fare con una pubblica amministrazione corrotta? La Grecia sta affondando e quelli continuano a rubare!».

Il grido di dolore dell’imprenditore trova riscontro in uno studio della Fondazione per la ricerca economica e industriale (IOBE), forse il più autorevole think tank greco. Secondo lo studio il governo di Atene, a dispetto della crisi e dei sacrifici lacrime-e-sangue imposti ai cittadini, non è riuscito a riformare sul serio la sua burocrazia, e deve ancora sbarazzarsi dei funzionari disonesti.

Alle radici del profondo livello della corruzione in Grecia, c’è, secondo il giornalista greco Dimitri Deliolanes, autore del saggio “Come la Grecia” (Fandango), un peccato originale: «Come è stato costruito l’apparato amministrativo dello Stato greco, e selezionati gli impiegati statali, attraverso la promozione politica. Io voto il tal deputato del tal partito, e lui in cambio mi promette l’assunzione di qualche parente, un figlio, nell’apparato statale. E questo fa sì che tra gli impiegati statali ci siano persone incapaci, non all’altezza del loro compito, e ovviamente ben disposte verso qualsiasi tipo di corruzione».

Sembra che in Grecia il malcostume arrivi sino ai piani più alti della politica, infettando sia la destra che la sinistra. A marzo è stato condannato il socialista Akis Tsochatzopoulos, ex ministro della difesa in custodia dall’aprile 2012: otto anni di prigione, per aver nascosto dei beni al fisco. E pochi giorni prima è finito in galera pure l’ex sindaco di Salonicco Vasilis Papageorgopoulos, politico conservatore con un passato da campione olimpico. Rispetto a Tsochatzopoulos, all’ex sindaco della seconda città greca è andata molto peggio: ergastolo, per aver sottratto quasi 18 milioni di euro alle casse pubbliche.
Qualche condanna eccellente, comunque, non è bastata a placare i greci, che conoscono i vizi di un ceto politico sensibile alla ricchezza, e alla sua ostentazione. Tsochatzopoulos e la sua bella moglie Viki Stamati, per esempio, erano famosi per lo stile di vita sfarzoso, la residenza lussuosa e le spese pazze (la Stamati avrebbe comprato, in un solo anno, duecento paia di scarpe).

La corruzione, in Grecia, non si limita ai soli politici. È endemica in tutta la società, come scriveva l’anno scorso Costas Bakouris, a capo della sezione greca di Transparency International. Secondo l’ong, in Grecia una tangente ha un costo medio di 1.406 euro; per accattivarsi le simpatie del fisco, bisogna sborsare dai cento ai 20mila euro; e se si ha bisogno di fare un particolare esame medico, o anche solo di accelerarlo, è possibile che il dottore chieda un fakelaki (bustarella) di 30mila euro. Lo conferma, a Linkiesta, un giovane informatico ateniese in Italia per conseguire un dottorato, e che preferisce rimanere anonimo. «Se in Grecia vai in ospedale e devi fare in fretta un esame, sicuramente farai un regalino al medico. Anche la mia famiglia ha sperimentato sulla sua pelle la corruzione. Mio nonno doveva fare un’operazione al cuore, e per questo ha dovuto pagare 3mila euro».

Quest’anno il Pil greco dovrebbe contrarsi, secondo le stime del FMI, di oltre il 4 per cento. E poiché piove sempre sul bagnato, la crisi che ha messo in ginocchio la nazione ellenica ha anche aumentato il fenomeno. Ciò era prevedibile, in realtà: meno risorse ci sono, più feroce diventa la concorrenza per accaparrarsele, in modo onesto o meno. In una nazione dove il partito di estrema destra Alba Dorata spopola, e i giovani laureati senza lavoro tornano nelle campagne a zappare la terra, il malcostume dilaga di pari in passo con la disperazione.

«A causa della crisi in Grecia c’è ancora più corruzione – dice Deliolanes – Alla corruzione venale che esisteva già prima, e che nasceva dal desiderio di arricchirsi, si somma quella generata dai drastici tagli al bilancio pubblico e al profondo peggioramento dell’economia. Oggi la gente si fa corrompere per poter sopravvivere. Un poliziotto che deve contrastare le bande di narcotrafficanti e riceve uno stipendio non superiore ai mille euro al mese, e ha una famiglia da mantenere, è ovviamente molto esposto alla corruzione».

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Italia

È quasi spontaneo chiedere a Deliolanes se consideri la Grecia uno Stato fallito o meno. E lui risponde, senza esitare, di sì. Ma se Atene piange, Roma non ride. Perché la corruzione sta devastando pure la Repubblica italiana. Che infatti è, dopo la Grecia, la seconda nazione più corrotta dell’Europa occidentale. Nel già citato indice di Transparency International, l’Italia registra un risultato peggiore del Sudafrica o della Romania.

«Quello della corruzione, in effetti, è un problema molto serio, e credo che il Corruption Perceptions Index rappresenti fedelmente un Paese che versa in una grave crisi economica e democratica. – sottolinea a Linkiesta Francesco Centonze, professore di diritto penale dell’economia all’Università Cattolica di Milano – Il fenomeno della corruzione è ormai così pervasivo da aver portato a ridimensionare, come scrivono Della Porta e Vannucci nel loro «Mani impunite», quella ottimistica contrapposizione, emersa negli anni di Mani Pulite, tra una società politica corrotta e una società civile sana e onesta».

Secondo il docente, «nessun ambito della nostra società può oggi dirsi estraneo alle pratiche corruttive: basti pensare, usando il semplicistico gergo giornalistico, alle varie «calciopoli», «esamopoli», «vallettopoli», «parentopoli»». E sono numerose le ragioni (storiche, culturali, economiche, giuridiche ecc…) che hanno favorito la diffusione della corruzione in Italia. A riguardo rimane degno di lettura il vecchio saggio «Basi morali di una società arretrata» del politologo americano Edward Banfield, dove si trova «un concetto chiave per comprendere la diffusione della corruzione in Italia: quello che lo studioso definiva “familismo amorale”, l’incapacità di orientare il comportamento individuale in funzione di un bene collettivo, il modesto spirito comunitario che contraddistingue le nostre aggregazioni sociali».

Centonze è quasi brutale. «Manca l’impegno civico, la tensione verso il perseguimento del bene comune anche a scapito di interessi individuali. E ciò da un lato ha impedito la costruzione di una pubblica amministrazione solida, disciplinata da rigorose regole di condotta e, dall’altro, ha dato vita a un singolare rapporto tra il cittadino e gli amministratori della cosa pubblica, in cui il primo si attende, ovviamente, che anche quest’ultimi siano guidati dal loro interesse e non da quello della comunità: da qui, la crisi di credibilità della politica, l’allontanamento dei cittadini dalla vita pubblica e il dilagare della corruzione».

Forse la Grecia batte l’Italia quanto a diffusione della corruzione, ma se si pensa alle diverse dimensioni delle due economie, allora non c’è partita. Perché un conto è parlare di un Paese di undici milioni di abitanti, e con un Pil pari a circa il 2% di quello dell’intera eurozona, un altro è parlare della terza economia dell’eurozona, tra le maggiori del pianeta, con sessanta milioni di abitanti.

«Se l’entità monetizzata della corruzione annuale in Italia è stata correttamente stimata in 60 miliardi di euro dal Servizio Anticorruzione e Trasparenza del Dipartimento della Funzione Pubblica, rispetto a quanto rilevato dalla Commissione europea l’Italia deterrebbe il 50% dell’intero giro economico della corruzione in Europa!» si può leggere nella relazione scritta del procuratore generale della Corte dei Conti, Lodovico Principato, in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario lo scorso anno. Poco dopo però è scritto: «Il che appare invero esagerato per l’Italia, considerando che il restante 50% si spalmerebbe senza grandi problemi negli altri 26 Paesi dell’Unione europea».

Di certo la corruzione è un immenso costo economico per un Paese già in difficoltà come il nostro. Se nell’indice di competitività globale elaborato dal World Economic Forum, l’Italia è solo al 42° posto (la precedono pure nazioni come Panama e la Thailandia), tra le ragioni ci sono gli «alti livelli di corruzione e crimine organizzato, e la percezione di una scarsa indipendenza del sistema giudiziario, che aumentano i costi d’impresa e minano la fiducia degli investitori».

Come in Grecia, dove esiste una vera e propria «cultura della mazzetta» («storicamente la corruzione è vista come qualcosa di normale – spiega il dottorando ateniese), anche in Italia il problema potrebbe essere la mancata adesione collettiva a un codice di principi e valori condivisi. «Possiamo intendere la corruzione come sistema culturale e apparato normativo: c’è chi ha parlato, in maniera assai efficace, di mercato della corruzione, un mercato disciplinato da norme alternative rispetto a quelle dell’ordinamento giuridico, norme che governano le pratiche corruttive e si impongono come modelli di comportamento. – spiega Centonze – Il problema è che, come hanno spiegato bene Della Porta e Vannucci, si tratta di un sistema che si autoconsolida: gli accordi illeciti sono regolamentati, le transazioni risultano efficienti e dunque la cultura della corruzione si rafforza. Per chi vive immerso in quella cultura la corruzione finisce per normalizzarsi (i sociologi parlano di normalizzazione della devianza), e per perdere i connotati della illiceità».

Di certo aiuta (i criminali) il fatto che la corruzione non sia contrastata con efficacia dallo Stato. Nel 2011 sono state inflitte condanna per 75 milioni di euro, quando la corruzione costa all’Italia 60 miliardi di euro. «Purtroppo il sistema giudiziario e, in generale la società, non sembrano essere disposti a punire con forza questo fenomeno. – spiega a Linkiesta il professor Gianfranco Pasquino, docente presso il Bologna Center della School of Advanced International Studies della John Hopkins University – Il senso di impunità che pervade buona parte della società italiana è da un lato frutto di un cattivo funzionamento del sistema giudiziario, e dall’altro un problema culturale».

Per Grazia Mannozzi, docente di diritto penale presso l’Università dell’Insubria e autrice con Piercamillo Davigo del testo «La corruzione in Italia: percezione sociale e controllo penale» (Laterza), «in Italia non c’è un’adesione valoriale alle norme giuridiche, il soggetto non si conforma spontaneamente al dettato normativo. Nel nostro testo noi parliamo di una sottocultura criminale perché ci siamo resi conto che nell’ambiente politico e in quello degli affari la corruzione, in realtà, non viene percepita come un reato. Le parti che sono coinvolte nello scambio corrotto sanno che la norma esiste, ma ritengono che non li riguardi, che non sia loro applicabile, non si sentono motivati dalla minaccia di pena, anche perché la pena è poco credibile in Italia».

A detta della Mannozzi, «nonostante il legislatore minacci in astratto pene molto concrete, in realtà infligge solo una quota molto modesta delle sanzioni che minaccia astrattamente, queste sanzioni arrivano dopo molto tempo e sono di severità talmente bassa da non essere credibili. L’87,7% delle condanne per corruzione e concussione è per pene sotto i 2 anni di reclusione, il che significa sospensione condizionale della pena principale e sospensione delle pene accessorie, e quindi impunità totale». Il clima di impunità e omertà che regna nella nostra Penisola genera risultati kafkiani, sulla carta. In rapporto alla popolazione, il tasso di condanne per corruzione in Finlandia (nazione storicamente percepita come onesta e ligia alla legge) è pari a quello in Italia. Un risultato che non è credibile, ovviamente, e rappresenta un’ulteriore conferma della scarsa credibilità del sistema giudiziario nostrano.

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Spagna

In realtà la situazione è piuttosto fosca anche in un’altra penisola, quella iberica. La Spagna, che prima della crisi fa veniva assurta come modello di virtù mediterranee, si sta scoprendo corrotta. Certo, nell’indice di percezione della corruzione fa assai meglio dell’Italia: è al trentesimo posto, noi solo al settantaduesimo. Tuttavia negli ultimi tempi, in Spagna, si è verificata una continua esplosione di scandali, che hanno investito il mondo politico, quello finanziario e persino la casa reale. Scandali dalla risonanza europea come il caso Bárcenas, dal nome dell’ex tesoriere del Partito popolare Luis Bárcenas, che in Svizzera aveva aperto vari conti correnti multimilionari. O il caso Nóos, che vede tra gli accusati persino Iñaki Urdangarin, marito dell’infanta Cristina, ultimogenita di re Juan Carlos e della regina Sofia; in realtà pure Cristina è rimasta coinvolta nelle indagini, ma pochissimi giorni fa il tribunale di Palma di Maiorca ha annullato, in via provvisoria, la sua imputazione.

I cittadini sono sconvolti ed esasperati. «Alle radici dei guai economici della Spagna c’è la corruzione. – racconta a Linkiesta Raúl. Ventisette anni, originario della Valencia, Raúl (il nome è di fantasia) lavora come concierge in un hotel dell’Italia settentrionale, e preferisce rimanere anonimo data la delicatezza del tema. Ha una laurea in ingegneria civile, ma il pezzo di carta non gli serve a niente – Sono dovuto emigrare in Italia perché in Spagna non c’era lavoro. Riesco a tornare a casa una o due volte al mese. Tutta colpa delle banche, delle cajas regionali, che per anni hanno alimentato senza ritegno la bolla immobiliare, con la totale complicità dei politici, corrotti e incompetenti».

Per il Centro de Investigaciones Sociológicas (CIS), gli spagnoli considerano la corruzione il secondo problema più grave dopo la disoccupazione, che ha ormai raggiunto livelli altissimi. «Secondo i dati di un rapporto della Inspección del Consejo General del Poder Judicial, in questo momento ci sono 1660 casi giudiziari aperti collegati alla corruzione politica e finanziaria. – spiega a Linkiesta il professor Fernando Jiménez dell’Universidad de Murcia, e grande esperto in materia – L’incidenza della corruzione nella classe politica è alta, ma occorre precisare. A mio parere c’è un aspetto sorprendente (e positivo) nel caso spagnolo: negli anni del boom immobiliare (1997-2006), gli incentivi e le opportunità di corruzione erano alti, e i controlli istituzionali disastrosi; nonostante ciò, l’ampiezza del fenomeno corruttorio non ha mai raggiunto le dimensioni che avrebbe potuto raggiungere. Cioè, ci sono stati molti politici implicati in atti di corruzione, e il loro numero è cresciuto per il diffuso senso di impunità. Però gran parte dei politici (stiamo parlando di circa 100-150mila persone) ha mantenuto un comportamento onesto, malgrado l’esistenza di questi incentivi e il basso costo associato alla corruzione».

Le parole di Jiménez trovano eco in quanto dice a Linkiesta Fernando Vallespín, docente di scienze politiche e amministrazione presso l’ Universidad Autónoma de Madrid. «In Spagna si può dire che non ci sia corruzione nell’amministrazione centrale dello Stato. La maggior parte dei casi di corruzione si sono verificati nei governi regionali (le Autonomie) e, soprattutto, nelle amministrazioni locali. La ragionale fondamentale è che sono le realtà locali ad avere le competenze in materia urbanistica, ed è stata l’interazione tra la politica e le imprese immobiliari che ha prodotto gran parte dei casi di corruzione».

Per Jiménez, «la corruzione danneggia enormemente l’economia, perché genera moltissime inefficienze. Nel caso spagnolo essa ha portato a enormi investimenti in opere pubbliche rivelatesi un enorme sperpero di denaro: aeroporti senza aerei o quasi senza uso, sontuosi e costosissimi palazzi dei congressi in ciascun capoluogo provinciale…»

In effetti aeroporti-fantasma come quello di Ciudad Real, in Castiglia-La Mancia, sono oggi monumenti involontari al fallimento di un boom illusorio. Costruito sul ladrillo, il mattone. Che doveva garantire benessere (o addirittura prosperità) a tutti. Negli anni precedenti alla crisi, la frenesia immobiliare aveva contagiato anche i più poveri. Basti pensare che nel solo 2007 venivano accesi in Spagna quattromila mutui al giorno. «Sono diventato ingegnere civile perché qualche anno fa nel mio Paese quello dell’edilizia era un settore in continua espansione – dice Raúl – Oggi non più. Oggi mi sento tradito, da una politica che non sa governare».

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Portogallo

Il pessimismo di Raúl è condiviso dalla coetanea portoghese Benedita, che fa la cameriera in un ristorante a Monaco di Baviera. «Ho una laurea in storia dell’arte, totalmente inutile in Portogallo. Pensavo di partire per l’Angola, come ha fatto una mia amica dell’università, ma poi ho preferito restare in Europa. Perché a Monaco, con il mio ragazzo, è possibile pensare di metter su famiglia. Le scuole sono buone, gli ospedali pure, e poi ho dei parenti lì, quindi posso contare sul loro supporto. Nel lungo termine è la scelta giusta».

Se si chiede a Benedita quanto sia corrotta, secondo lei, la classe dirigente del Portogallo, risponde con una smorfia: «Troppo. Pensano solo ad arricchirsi. Molti di loro hanno scelto di fare politica perché nel settore privato non avrebbero avuto molto successo» La rabbia di Benedita sembra rispecchiare quello di molti portoghesi. «Secondo i dati forniti nel 2011 dal Barometro per la qualità della democrazia, la corruzione è il terzo maggior difetto della democrazia portoghese, preceduto dall’inaffidabilità e l’incompetenza dei leader politici. – dichiara a Linkiesta Luís de Sousa, ricercatore dell’Instituto de Ciências Sociais dell’Università di Lisbona nonché presidente della sezione portoghese di Transparency International – Ciò corrobora i risultati del Barometro sulla corruzione globale del 2010 di Transparency International: l’83% dei cittadini portoghesi ritiene che la corruzione sia aumentata nel Paese negli ultimi tre anni».

Negli anni, continua de Sousa, «il Portogallo ha migliorato il suo apparato istituzionale e legale contro la corruzione. Comunque ha ottenuto risultati molto modesti». Il perché è presto detto, a suo parere: «Il problema del Portogallo non è la mancanza di leggi anti-corruzione, ma il fatto che, deliberatamente o a causa dell’incompetenza del legislatore, una grossa parte di queste leggi contiene lacune e disposizioni che compromettono la loro effettiva applicazione».
Come in Italia, il Portogallo «ha un tasso molto di basso di condanne per corruzione e crimini associati, e quasi non esiste un registro delle ordinanze di custodia eseguite. Benché la pena non sia in sé uno scopo, l’applicazione della giustizia rappresenta un importante deterrente, e non dovrebbe essere minata da una pletora di eccezioni, vuoti legislativi e cavilli che con la scusa di salvaguardare i diritti e le libertà dell’individuo creano una rete di infiniti meccanismi d’appello utilizzabili dai subdoli, dai ricchi e dai potenti, con costi incalcolabili per la reputazione e la credibilità del sistema giudiziario». 

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[foto: Atene, commemorazione della protesta del 1973 (Afp); Le bandiere del Quirinale; L’ingresso del museo Prado di Madrid (flickr – marcp_dmoz); Piazza di Lisbona (flickr –  Yersinia);
grafici: i punteggi di Grecia, Italia, Spagna e Portogallo nel Corruption Perception Index: il risultato migliore è il 90 assegnato alla Danimarca, il peggiore l’8 della Somalia]

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