Sul Pd, appena un po’ risollevato dai risultati delle amministrative, incombe, minacciosa come un nuvolone nero, la prossima scadenza del congresso. Tanto minacciosa che il partito non è riuscito finora neanche a fissare la data, nonostante alcuni la chiedano a gran voce.
Il percorso è cominciato ieri con la riunione della commissione sulle regole. I problemi sono le ventilate modifiche statutarie, che dovrebbero blindare un maggioranza non ben identificata, se non dalla contrapposizione a Renzi, ma che non sono condivise da dirigenti importanti come Veltroni e D’Alema; e l’assenza, al momento, di possibili leader, vista l’incertezza del sindaco di Firenze e la difficoltà di trovare una candidatura alternativa alla sua.
In realtà, tutti questi problemi rimandano al problema di fondo che il Pd si è trovato di fronte dopo il fallimento del tentativo di Bersani di formare un governo, prima, e di determinare l’elezione del presidente della Repubblica, poi. E lo si può descrivere così: la vecchia maggioranza è saltata e non ce n’è ancora una nuova. Così si spiega il singolare fenomeno, evidente a tutti, di candidature apparentemente solide che durano lo spazio di un mattino, da Barca a Chiamparino.
Tutti i movimenti in corso si riducono a tentativi di dare origine a nuove maggioranze; e tra questi particolarmente evidente è il tentativo di una parte dei bersaniani di ricostituire una nuova-vecchia corrente sempre bersaniana. Tutti gli altri, intanto, si muovono sempre più nell’orbita di Renzi. I bersaniani (non tutti) hanno fatto la prima mossa, con un documento che ripropone alcuni dei chiodi fissi dell’ex-segretario (come la polemica contro il personalismo), ma segna anche approdi nuovi: il presidenzialismo, ad esempio, che Bersani continua a rifiutare, sembra essere accettato.
La cosa più interessante è però il riposizionamento di D’Alema, che avendo definitivamente rotto con il suo ex-pupillo Bersani sembra veleggiare verso Renzi. Questa è una rottura che cambia sostanzialmente gli schieramenti sul campo di battaglia. Un’alleanza con Renzi sembra strana, per ragioni personali e politiche. Chi lo conosce, però, sa che l’uomo fa sempre prevalere la politica sui problemi personali; e che la politica, lui lai vive e pratica in modo fortemente tattico.
Ovvero, se serve allearsi con Renzi si mettono da parte le differenze di concezione politica e di visione del ruolo del Pd. Insomma, se son rose fioriranno. Qualcuno, però, dovrebbe avvisare il sindaco, ancora inesperto della vita interna del Pd e probabilmente privo di memoria delle vicende dei post-comunisti, che l’alleanza di D’Alema è pericolosa; che di solito dura poco, ed è seguita da un netto distanziamento. Vedi il caso Prodi e poi il caso Veltroni.
Queste sono le cose che si sussurrano nei corridoi della politica e che si leggono sui giornali. Eppure, c’è qualcosa di assurdo nel parlare così del congresso di un grande partito, e per di più di un partito che vive una profonda crisi di identità. Non dovrebbe un congresso, prima che alleanze, porre questioni di politica, di scelte, di visione? La questione centrale di questo congresso, dopo tutto quello che è successo, non dovrebbe essere chiedersi che cosa vuol essere il Pd, se vuol essere un partito del presente e del futuro o un erede del passato, se vuole tradurre gli ideali di giustizia ed eguaglianza in forme compatibili con il mondo globale e con i vincoli europei, valorizzando l’iniziativa individuale e il mercato regolato, o continuare sulla via della redistribuzione statalista… ecc. ecc.?
Di tutto questo si parla poco o niente. Anche Renzi, che al tempo delle primarie sembrava puntare su una versione liberal della sinistra, ora sembra aver messo la sordina su questo punto, forse perché pensa che per vincere deve conquistare il corpaccione del partito. Eppure il Pd ha bisogno di una vera e sana dialettica politica, di una vera e sana battaglia delle idee, dalla quale possa uscire una identità definita, scelte culturali e programmatiche ben individuate. Solo così potrà salvarsi, rigenerarsi, offrire uno strumento valido ai cittadini che continuano a credere nella politica e anche riconquistare qualcuno di quelli che non ci credono più.
Le alleanze interne, i posizionamenti, la formazione di una nuova maggioranza, dovrebbero derivare dalla dialettica politica e non sostituirla. Altrimenti il Pd morirà di tatticismo e di trasformismo.