Mediobanca diventa banca. L’era di Enrico Cuccia si è chiusa quando il consiglio di amministrazione ha approvato all’unanimità un ambizioso piano industriale al 2016, che prevede una crescita organica annua del 10-11%, ricavi bancari a 2,1 miliardi – di cui il 45% proveniente dall’estero – e un patrimonio di vigilanza Core Tier 1 all’11-12%, in un contesto di costo del rischio stabile a 150 punti base. Available for sale, «disponibili per la vendita». Sono queste le tre parole chiave che spiegano il nuovo approccio sulle partecipazioni “di sistema”: signori, si vende. L’imperativo è migliorare la redditività e garantire un payout (la percentuale dell’utile destinata ai dividendi, ndr) del 40 per cento.
Scomodando Freud, sembra che Piazzetta Cuccia abbia scelto di eliminare il padre fondatore. Estremamente costoso in termini di capitale e avaro di soddisfazioni durature per gli azionisti, il metodo dell’azionariato incrociato via patti di sindacato per dare stabilità agli assetti proprietari del capitalismo italiano ha mostrato di non essere più al passo con i tempi. Questione di modello e di persone. Per l’amministratore delegato Alberto Nagel – convinto che questa riduzione darà «un vantaggio in termini di reputazione» – e per il presidente Renato Pagliaro l’esame di maturità è cominciato venerdì, per quanto Piazza Affari si possa ancora considerare “mercato”. C’è da dire che per il momento gli investitori non hanno gradito granché: il titolo ha chiuso a 4,4 euro (-9,2%) dopo essere stato sospeso per eccesso di ribasso nel corso della giornata.
Nell’iter di dismissione degli asset non core – l’obiettivo è liberare 2 miliardi di capitale sia per evitare un nuovo aumento (l’ultimo risale al 1998) sia per avere risorse da investire – è Generali a fare la parte del Leone. Tolta la quota detenuta nel gruppo triestino, infatti, la capitalizzazione della banca corrisponde all’incirca a quella del Banco popolare. Un calcolo che, per quanto non tenga conto dello sconto con cui trattano sul mercato le holding (e che il top management vuole eliminare), dà la misura di quanto sia stato ponderato l’impatto della mossa sulla direttrice Piazza Cordusio (sede di Unicredit, principale azionista dell’istituto) – Piazzetta Cuccia – Piazza Unità d’Italia (quartier generale del Leone). Secondo i calcoli econometrici sui diversi scenari ipotizzati in questi mesi dall’ufficio contabile, il livello ottimale per ottenere un rendimento per azione “soddisfacente” è scendere dal 13,2 attuale al 10% della compagnia assicurativa in tre anni. Possibilmente vendendo a un fondo sovrano asiatico, come ha specificato Nagel nella conferenza stampa seguita alla presentazione del piano, sottolineando però che sul tavolo al momento non ci sarebbe alcuna ipotesi in questo senso. Nel piano il target per il 3,2% è pari a 1,5 miliardi.
Il piano industriale in sintesi. Fonte: Mediobanca strategic guidelines update
Chiara anche la direzione su Rcs, di cui l’istituto è stato il primo azionista fino all’avvio dell’aumento di capitale, lo scorso 17 giugno. Salutando con un «benvenuto» a denti stretti il contributo di Della Valle, che vorrebbe un cambio di piano industriale considerato difficilmente realizzabile prima della chiusura dell’operazione straordinaria, Nagel si è soffermato sul patto di sindacato che lega gli azionisti forti del Corriere della Sera, osservando senza giri di parole l’urgenza di rivederlo il prima possibile: «Se si può fare tecnicamente prima di settembre, meglio».
Più complessa la partita che investe l’11,6% di Telco, holding al 22,5% di Telecom Italia. Ai dubbi sui vantaggi «per niente ovvi» dello scorporo della rete in rame, si aggiungono quelli sulla sostanza dell’offerta del magnate cinese Li Ka Shing, patron del gruppo che controlla 3 Italia. Su quest’ultimo punto Nagel fa sapere che all’istituto non è ancora stata recapitata alcuna lettera proveniente dall’Estremo oriente. Parole che confermano la tesi di quanti considerano l’interessamento alla stregua di quello, rispedito al mittente qualche mese fa, della Orascom di Naguib Sawiris. Sul patto, la cui prima finestra utile per la disdetta è a settembre come Rcs, Nagel ha detto: «La premessa è che Mediobanca non può essere socio di lungo termine di Telco, quando la holding è stata fatta serviva per istituzionalizzare la governance di Telecom in maniera particolare: ora rimanere sarebbe qualcosa di negativo per gli azionisti di Telco e e per Telecom stessa». E quindi «bisogna creare un azionariato che sia coerente con il business e coi peers all’estero dove non ci sono situazioni come Telco».
Archiviato il capitolo partecipate, la strategia di Mediobanca per fare la banca prevede da un lato lo sviluppo delle sinergie tra Compass e Che Banca! – niente fusione tra le due sia per i costi d’integrazione che per questioni legate all’avviamento sui marchi – e dall’altro l’investment banking. Per la prima la previsione è di una crescita del 4% dei prestiti fino a 11 miliardi, per la seconda del 5% con una raccolta a quota 14 miliardi. Investment banking significa essenzialmente consulenza alle imprese, non avendo abbastanza capitale da impiegare nel trading proprietario come Goldman Sachs o Morgan Stanley, per citare due banche d’affari cui Mediobanca sembra volersi ispirare.
Rimangono due grossi punti interrogativi: il wealth management e l’estero. La joint venture con Mediolanum nel private banking e la controllata Monegasque de Banque, ha ammesso il direttore generale Saverio Vinci, hanno «bassa redditività». Per questo il comparto va spinto, anche con piccole acquisizioni, con un occhio rivolto alla Svizzera. Stando al piano, il management si aspetta al 2016 che generi il 15% dei ricavi complessivi.
Sul secondo punto l’idea è di potenziare Londra come hub per la distribuzione dei prodotti e destinare le sedi di Francoforte, Madrid e Istanbul per penetrare rispettivamente Est Europa, Sudamerica e Medio Oriente, in una logica più da boutique che da banca. Senza cioè procedere per acquisizioni di rami d’azienda o partnership – sfortunata l’avventura Tunisina assieme a libici e algerini – ma lavorando con piccoli team. Qualche buon risultato lo si è già visto: nel primo trimestre l’istituto è passato dal 15° al 4° posto nella classifica Thomson Reuters per deal completati.
Tanta carne al fuoco. Tuttavia, la sfida più difficile paradossalmente non è crescere del 10% l’anno, ma vendere senza svendere le partecipazioni e soprattutto uscire dalla logica del capitalismo di relazione, a cui sono abituati i soci forti di Mediobanca. Come insegna la fusione tra Fondiaria Sai e Unipol e i suoi strascichi giudiziari, non si abbandona facilmente un sistema di potere consolidato da mezzo secolo, che Nagel e Pagliaro peraltro conoscono bene. Fin troppo.
Twitter: @antoniovanuzzo