«Non com’erano, ma come me li immaginavo». Eppure, suonano più vere del vero le sette biografie che ha racchiuso in Natura morta con custodia di sax (Einaudi), tra critica creativa e racconto. I giganti del jazz visti con l’occhio dell’appassionato: una mitologia suggestionata tanto dalla musica quanto dalle fotografie, cariche di “una loro sonorità” (la natura morta del titolo italiano è una foto di Herman Leonard con custodia e cappello di Lester Young). Giganti, si scoprirà, tutt’altro che immacolati.
Ogni storia parte da fatti reali, aneddoti, scene leggendarie. Ma, avverte Dyer nella prefazione, non sono altro che «standard che io rielaboro, riferendo più o meno sommariamente i fatti principali per poi passare a improvvisarci sopra, in alcuni casi staccandomene del tutto». Il jazz ha natura d’improvvisazione, e queste storie sul jazz anche. Per ritornare in campo neutro, basterà sfogliare la postfazione, una guida all’ascolto che analizza la storia del jazz fino a tempi recenti.
Ma prima della teoria, c’è la pratica. Dove la musica è sublimazione, ma il vero filo rosso è il dolore. Intervallati dal viaggio in macchina di Duke Ellington e Harry Carney (un contraltare d’armonia con la natura e le macchine), ci sono i ritratti di Lester Young, Thelonious Monk, Bud Powell, Ben Webster, Charles Mingus, Chet Baker, Art Pepper. Vite sporche, distrutte o alla deriva, dove il jazz è un faro sul lato oscuro. Sofferenza, solitudine, distruzione e autodistruzione. E lotta con autorità mediche o repressive: «La storia del jazz moderno è fatta di musicisti che finiscono in stanze come questa; il bianco delle pareti e dei camici sembra la negazione del mondo oscuro e notturno della musica».
Lester Young, “The President”, è spezzato dal servizio militare. Si butta via con l’alcol e a nulla può l’amore non consumato per Billie Holiday. Thelonious Monk, pianista che suonava innanzitutto il suo corpo, parlava a malapena e diceva di usare la tastiera «come viene viene»: sempre più sconnesso, sempre più discordante, fino al silenzio quasi totale, senza avere più voglia di niente. Bud Powell che sprofonda nella follia. Ben Webster, già stella dell’orchestra di Duke, felice di suonare per i passeggeri di un treno in Europa, per dimenticare di sentirsi solo. Charles Mingus, enorme uragano di rabbia ambulante contro l’America, il business, persino la sua band. Chet Baker, il bel volto bianco presto mangiato dalla tossicodipendenza, e addio ai denti spaccati da uno spacciatore. Art Pepper, altro sassofonista bianco, altro tossicomane che faceva avanti e indietro col carcere, ridotto a pezzi dall’eroina.
Nulla da idealizzare. Nulla di redento dalla musica. Soltanto l’enigma della bellezza filtrata da esistenze tanto malmesse. But beautiful, recita il titolo originale del libro, preso a prestito da un famoso standard. È un paradosso. È il jazz. Dyer vi ci porta vicino. Garantisce un critico speciale, tale Keith Jarrett: «È l’unico libro intorno al jazz che raccomando ai miei amici. Se la vicinanza al materiale determina un grande assolo, il libro di Dyer lo è».
DUKE ELLINGTON, Washington, 1899 – New York City, 1974. Compositore e direttore d’orchestra
«Montagne, laghi, strade,donne, ragazze, ragazze carine, belle donne, prospettive di città, tramonti, oceani, camere d’albergo con vista, musicisti della band, vecchi amici… Aveva raggiunto il punto in cui ogni cosa che incontrava trovava posto nella sua musica: una geografia personale della Terra, una biografia orchestrale di suoni, colori, odori, sapori, e gente; tutto ciò che aveva provato,toccato e visto… Era come uno scrittore che si serva di suoni invece che di parole; e ora stava lavorando a una gigantesca narrazione musicale che cresceva di continuo e che in definitiva parlava di sé stessa, degli uomini chiamati a suonarla… La pioggia rallentò per un momento e poi riprese a cadere piú forte. Guardare fuori era come cercare di vedere qualcosa da sotto una cascata. Il vento urlava come un pazzo. Harry strinse il volante e lanciò un’occhiata a Duke, domandandosi quanto ci sarebbe voluto prima che anche questo temporale si facesse largo nella sua opera»
LESTER YOUNG, Woodville, 1909 – New York City, 1959.
Tenorsassofonista
«Il sound di Lester era tenue e pigro, ma da qualche parte riservava sempre uno spigolo. Suonava come se fosse lí lí per mollare tutto, pur sapendo che non l’avrebbe mai fatto: ecco da dove veniva la tensione. Suonava con il sax inclinato da una parte e, a mano a mano che s’immergeva nell’assolo, lo allontanava progressivamente dalla verticale fino a tenerlo di traverso come un flauto. Non avevi mai l’impressione che lo stesse sollevando: era piuttosto lo strumento a diventare sempre piú leggero, come se volesse volar via, senza che lui neanche tentasse di frenarlo»
THELONIOUS MONK, Rocky Mount, 1917 – Weehawken, 1982.
Pianista e compositore
«Di giorno andava in giro tutto avviluppato in sé stesso, sempre con la propria musica in mente, guardava la tivú o, quando ne aveva voglia, componeva. A volte camminava per quattro o cinquegiorni di fila, percorrendo dapprima le strade a sud fino alla Sessantesima, a nord fino alla Settantesima, a ovest fino al fiume e tre isolati a est, quindi restringeva gradualmente la sua orbita finché non si ritrovava a fare il giro dell’isolato, o anche solo delle stanze di casa sua, senza sosta, rasentando le pareti, senza mai toccare il piano, senza mai sedersi. Infine dormiva per due giorni di seguito.
C’erano poi delle giornate in cui si arenava fra le cose, giorni in cui la grammatica della vita quotidiana e la sintassi che ne teneva insieme gli avvenimenti andavano in pezzi. Sperduto fra parole e azioni, non era piú capace di cose semplici come entrare da una porta, nelle stanze sempre piú labirintiche dell’appartamento. L’uso delle cose gli sfuggiva, non gli veniva piú automatico associare un oggetto alla sua funzione. Quando entrava in una stanza sembrava sorpreso che quello fosse lo scopo per cui era fatta una porta. Il cibo che mangiava lo stupiva, come se un pezzo di pane o un sandwich fossero infinitamente misteriosi, quasi non ne ricordasse il sapore dall’ultima volta. Una sera se ne stette in silenzio per tutta la cena a sbucciare un’arancia, quasi non ne avesse mai vista una in vita sua, finché, guardando il lungo ricciolo della buccia, disse:
– Le forme, – e un enorme ghigno gli illuminò la faccia».
BUD POWELL, New York City, 1924 – New York City, 1966.
Pianista e compositore
«Era nudo, salvo che per un paio di mutande e qualche vecchio giornale con la notizia della sua scomparsa. Aveva tagli sul viso di cui non ricordava niente, e si sentiva già pronto per un altro pestaggio, quando la torcia tornò a illuminarlo in faccia. (…) L’agente si era accovacciato accanto a lui, con una mano sulla sua spalla, in modo che il lampione della strada gli rischiarasse il volto. Spense la torcia, guardò di nuovo quelle palpebre pesanti, i baffi, i capelli che sembravano in disordine pur essendo cortissimi. Senza pensarci su, si rese conto all’improvviso che la persona di fronte a lui era Bud Powell. Cristo, non poteva essere. Quattro ore prima di prendere servizio stava ascoltando Dance of the Infidels, e aveva detto a sua
moglie che non c’era da discutere, Bud Powell era il piú grande pianista del mondo. Non poteva essere…eppure sapeva che Bud era schizofrenico, e che era scomparso da qualche giorno. Guardò ancora la faccia di quel negro, nei suoi occhi non si scorgeva altro che il graduale allentarsi della paura. Sí, merda, era lui. (…) Mentre prendeva la mano di Bud, in parte per aiutarlo ad alzarsi e in parte solo per stringergliela, non si trattenne dall’esclamare entusiasta:
– Questo è il piú gran giorno della mia vita, Bud, sul serio…»
BEN WEBSTER, Kansas City, 1909 – Amsterdam, 1973. Tenorsassofonista
«Si portava dietro la solitudine come la custodia di uno strumento. Non se ne staccava mai. Alla fine delle serate, dopo aver chiacchierato con gli ammiratori e magari con qualche amico di passaggio, dopo essersi ficcato in un bar ed esserci rimasto finché non c’era piú nessuno, dopo essersi diretto verso casa, dopo aver cercato le chiavi e averle sentite grattare rigirandole nella serratura silenziosa, dopo aver aperto la porta dell’appartamento e averlo trovato esattamente come lo aveva lasciato, dopo aver buttato la custodia del sax sul divano, dopo tutto questo, non importa quanto fosse tardi, arrivava sempre il momento in cui lo assaliva il desiderio di continuare a parlare, di sentire il tintinnio e il gorgoglio di qualcuno che metteva su il caffè o versava da bere. Quando gli capitava di tornarsene a casa cosí, stappava una bottiglia, si faceva qualche bicchierino e si sedeva in mutande e canottiera a suonare il sax, il piú sommessamente possibile»
CHARLES MINGUS, Nogales, 1922 – Cuernavaca, 1979. Contrabbassista e compositore
«Distruggeva le cose alla stessa velocità con cui le accumulava. Dappertutto a New York c’erano resti di roba che aveva fatto a pezzi e il cui valore s’era moltiplicato per il solo fatto di essere stata spaccata da lui. Una sera al Vanguard pretese che Max Gordon lo pagasse immediatamente. Quello non aveva liquidi, e cosí Mingus dovette accontentarsi di minacciarlo con un coltello e di mandare in frantumi un’intera fila di bottiglie, come un poliziotto ai tempi del proibizionismo alle prese con una scorta di liquori di contrabbando. Guardandosi intorno in cerca di qualcos’altro da sfasciare, ficcò il pugno in un riflettore. Da quel momento lo chiamarono «la luce di Mingus» e lo lasciarono cosí, come una reliquia su cui i turisti avrebbero potuto fare domande. Era un re Mida della distruzione: Tutto ciò che rompeva diventava leggenda».
CHET BAKER, Yale, 1929 – Amsterdam, 1988. Trombettista e cantante
«Ovunque andasse, la gente voleva conoscerlo, parlargli, dirgli che cosa aveva significato per loro la sua musica. I giornalisti gli facevano domande cosí lunghe che per la risposta bastava un grugnito di assenso o di diniego. Fra le tante cose che non gli interessavano, parlare era probabilmente quella che gli interessava di meno. Talvolta si chiedeva se avesse mai avuto una conversazione interessante in vita sua. Però gli piaceva avere intorno gente che parlava, gente che non si aspettasse da lui una risposta. Anche il suo modo di suonare era cosí, un modo di dar voce al niente, di dar forma al silenzio, prestandogli un certo colore. Il suo modo di suonare era intimo perché era come avere qualcuno seduto di fronte a te, che si concentra su quello che dici, attendendo pazientemente il suo turno per parlare»
ART PEPPER, Gardena, 1925 – Panorama, 1982. Altosassofonista
«Si trova lo strumento fra le braccia. Lo solleva in posizione verticale, sente i tasti battere sui bottoni della divisa carceraria. (…) Suona lentamente. Due degli uomini vicino a lui schioccano le dita; vede un piede muoversi leggermente nel cortile abbagliante. Per un paio di minuti non suona che la melodia, poi prova a staccarsene, con cautela all’inizio, attento a non perdersi. Sente qualcuno pronunciare il suo nome, si rende conto che sono in molti ad ascoltarlo, sempre di piú, il brusio delle voci si smorza. I prigionieri sono sparsi per il cortile in un perfetto equilibrio di spazi. La melodia, anche se lui sta ancora suonando, è come accerchiata a poco a poco, ha sempre meno libertà di movimento e, infine, non può che scoppiare a piangere e fare strazio di sé, come qualcuno che sbatta la testa contro il muro della sua cella.
Uno dei reclusi sussurra che è come sentir strappare l’anima da un uomo a furia di botte. Accanto a lui un vecchio negro scuote il capo:
– No, si tirerà fuori».