“Noi tedeschi discutiamo solo di quanto siamo bravi”

Verso il voto in Germania

«Aspettiamo, tanto prima di ottobre tutto è congelato». È questo il sentimento prevalente alla settima “Giornata dell’economia italo-tedesca”, organizzata dalla Camera di commercio italo-germanica e dedicata alla reindustrializzazione come sfida per risalire la china dopo la crisi. Una buona occasione per tastare il polso degli imprenditori per capire il livello di fiducia reciproca tra i due Paesi, conditio sine qua non per consolidare o aprire nuove possibilità di business. A partire da Expo 2015, come ha sottolineato il neopresidente dell’associazione Erwin Rauhe, responsabile per l’Italia del colosso chimico Basf. Ottobre perché a settembre Berlino va alle urne. E per quanto corra verso il secondo mandato, Angela Merkel dovrà verificare pesi e contrappesi all’interno della coalizione per poi decidere se trainare senza se e senza ma il progetto comunitario.

Michael Hüther, presidente dell’Institut der deutschen wirtschaft di Colonia, think tank liberale – uno dei più influenti “pensatoi” del Paese, prezioso consulente del governo sulla riforma del lavoro e la politica industriale, su quest’ultimo punto è scettico. «Il dibattito elettorale in Germania», osserva il professore, fellow del Bruegel di Bruxelles, «è incentrato su temi in voga negli anni ’70, come il salario minimo. Non vedo nessuna “agenda” per il 2020, la Merkel continua a dire che “tutto va bene e non alzeremo le tasse”, ma dobbiamo ripartire anche noi per essere competitivi in futuro». Al premier Enrico Letta suggerisce di «ripartire dall’industria per renderla più competitiva». Mettendo il dito nella piaga: l’onere di fissare delle priorità e dei settori su cui puntare per lo sviluppo è da troppo tempo in attesa di qualcuno in grado di sobbarcarselo.

Dice la vulgata: mentre l’Italia sprecava il dividendo della minore spesa per interessi sul debito pubblico derivante dall’introduzione dell’euro, tra il 2001 e il 2011, aumentando il perimetro della spesa, la Germania riformava il mercato del lavoro e consolidava l’export verso l’Estremo oriente. È andata così?
Il mercato del lavoro tedesco fino a una decina d’anni fa era piuttosto rigido, e il tasso di disoccupazione dopo la riunificazione elevato. Alla fine degli anni ’90 i socialdemocratici hanno vinto le elezioni, e dopo un primo periodo in cui hanno portato avanti le vecchie idee, hanno deciso di rendere più flessibile il mercato del lavoro per abbassare la disoccupazione. La riforma è stata introdotta nel 2003 nella cosiddetta “Agenda 2010”. Nel frattempo l’industria tedesca, dove spesso i protagonisti sono le grandi famiglie con una tradizione secolare, hanno capito che dopo la riunificazione dovevano espandersi verso nuovi mercati per sfuttare la differenziazione dei costi di lavoro e del valore aggiunto all’interno della filiera, cominciando a metà anni ’90. Questi due fattori si sono combinati bene a partire dal 2005-2006, quando l’economia tedesca ha iniziato ad espandersi in linea con il resto del mondo, il che significa più gli investimenti e più posti di lavoro altamente specializzati. Fu però una crescita diversa da quella di metà anni ’90: nel 2005-2006 il 96% dei posti di lavoro è stato creato grazie alla riforma del mercato del lavoro e del sistema previdenziale. 

Per quanto riguarda l’export, quanto conta la dimensione delle imprese? In Italia fino a qualche anno fa lo slogan era “piccolo è bello”.
Non credo sia una buona idea dire “piccolo è bello”, a meno che non si tratti di nicchie altamente specializzate. È più utile creare un mix tra grandi imprese in grado di fare sistema e medie imprese. Anche in Germania abbiamo il capitalismo familiare, ma a differenza ad esempio della Francia, non abbiamo strutturato la politica industriale inseguendo il modello dei “campioni nazionali” degli anni ’50 e ’60, ma puntando sulla flessibilità. Certo, i problemi per le nostre Pmi che producono in Cina non mancano, ad esempio è più facile gestire i conflitti con le autorità del Paese se hai la potenza di fuoco di una grande impresa. 

Lei sostiene che sia necessaria una politica industriale europea. Considerando la differente configurazione del tessuto produttivo di ogni Paese membro, come strutturarla?
Ritengo che la priorità numero uno per le autorità comunitarie sia accettare la responsabilità di costruire delle infrastrutture comuni. Intendo autostrade e ferrovie. Questo è un tipico compito di un’autorità sovranazionale come Bruxelles. La stessa cosa vale per la politica energetica, e la Germania ha sbagliato a non spingere in questo senso. La seconda priorità non riguarda il mercato del lavoro in quanto tale, ma le condizioni per lo sviluppo del capitale umano. Va portato avanti il processo di Bologna, esportando, nel rispetto dei diversi sistemi nazionali, la formazione duale che abbiamo sperimentato con buoni risultati in Germania. 

È davvero esportabile il “duale”?
Penso di sì. Gli imprenditori italiani e spagnoli dovrebbero rendersi conto di questa urgenza e “aprire” le proprie imprese alle istituzioni europee. È interessante notare che in Europa soltanto Germania, Svizzera e Francia hanno introdotto la possibilità di fare esperienza in azienda fin dalle scuole superiori. 

Passando dal micro al macro, per mettere a posto i conti di un Paese nel rispetto dei trattati si possono azionare essenzialmente due leve: aumentare le tasse, tagliare la spesa, condurre una spending review per eliminare gli sprechi. Ritiene che nel dibattito comunitario sull’austerity non sia stato abbastanza considerato il punto “keynesiano” dell’aumento della spesa per gli investimenti?
Devo confessare che non capisco molto il dibattito sull’austerity, perché è fuor di dubbio che non ci dovrebbero essere discussioni sulla necessità di un consolidamento dei conti da parte degli Stati membri. Al limite ci si può mettere d’accordo sul tempo che serve per realizzarlo, per esempio in 5 o 8 anni. L’altra questione riguarda le azioni da intraprendere per aumentare la crescita economica, e chiama in causa l’apertura dei mercati alla concorrenza e, il miglioramento dell’efficienza della pubblica amministrazione. Non si tratta di allocare nuovi fondi per gli investimenti, Italia e Spagna ne hanno avuti a pioggia negli ultimi dieci anni e li hanno utilizzati male. Si tratta di riformare le strutture pubbliche per migliorare l’iniziativa privata. 

Significa meno tasse?
Non esattamente, è meglio avere la certezza del sistema fiscale, una pubblica amministrazione che funziona, più semplificazioni nell’iter burocratico per aprire nuovi business. Insomma, si possono mettere in campo molte riforme senza allocare nuovi fondi, reinventando la burocrazia. 

La Germania è un modello?
In settembre abbiamo le elezioni, e il dibattito è su “quanto siamo bravi”. Io dico: sì, è vero, se guardiamo indietro al 2003 siamo migliorati molto. Ma come saremo nel 2020? Gerard Schroeder aveva introdotto l’”Agenda 2010”, ma all’orizzonte per i prossimi due lustri non vedo alcuna agenda. Dobbiamo ripartire con una prospettiva per i prossimi dieci anni. Il dibattito portato avanti da Angela Merkel e il partito liberale è della serie “tutto va bene, non alzeremo le tasse”, e su temi che sarebbero stati materia di contesa elettorale negli anni ’70, come il salario minimo.

Ha qualche suggerimento per Enrico Letta?
Già prima della crisi finanziaria del 2008 l’Italia era in coda alle classifiche per produttività. I vostri problemi risalgono a 10, 15 anni fa. Enrico Letta, di concerto con la grande coalizione di cui è a capo e in armonia con le istituzioni europee dovrebbe ripartire dall’industria per renderla più competitiva.

Twitter: @antoniovanuzzo

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