Diciamo la verità: chi non ha avuto, anche solo per un istante, un dejà vu leggendo della fuga rocambolesca di Edward Snowden, l’ex tecnico della Cia, al centro dell’inchiesta su Prism, il programma segreto di spionaggio del governo americano? Da una parte l’immancabile paragone con la clandestina vicenda di Julian Assange e delle rivelazioni che sconvolsero gli equilibri mondiali. Dall’altra quella più romanzata del passeggero Viktor Navroski, protagonista di The Terminal – il film di Steve Spielberg – ispirata alla storia di un rifugiato iraniano bloccato al Terminal 1 dell’aeroporto Charles de Gaulle di Parigi.
L’idea che Snowden – cui gli Stati Uniti hanno revocato il passaporto – rimanga nella zona transiti del Sheremetyevo di Mosca per un tempo indefinito, radendosi nei lavandini col getto d’acqua a spruzzo e sopravvivendo degli snack sputati dal distributore automatico più vicino, mette i brividi. E non solo ai diplomatici russi.
A Quito frotte di giornalisti sono tornati a invadere gli hotel, in attesa. «In alcuni casi le stesse stanze dello stesso albergo», raccontano dalla Bbc. Allora, lo scorso agosto, il governo ecuadoriano aveva concesso asilo politico al più ricercato dei ricercati, il fondatore di WikiLeaks. E la stampa era in attesa di un volo che non arrivò mai, visto che Assange non poté lasciare il suolo britannico, rimanendo confinato nelle stanze dell’ambasciata sudamericana di Londra. Oggi la storia si ripete. Snowden ha chiesto al Paese andino asilo politico e il presidente Rafael Correa sembra stia valutando la faccenda: «Ciao al paese e al mondo… state sicuri che analizzeremo con responsabilità il caso Snowden e prenderemo con assoluta supremazia la decisione più adeguata. Un forte abbraccio a tutti», scriveva il 24 giugno sul suo account ufficiale di Twitter.
Insomma l’Ecuador, a quanto pare, sta diventando una meta popolare per i perseguitati. E non a caso. Non c’entra granché però l’immagine di un piccolo Paese, paladino della libertà di stampa e dei diritti umani, in lotta contro il Golia americano. Le questioni sono diverse, ma tutte in linea con la retorica bellica dell’America latina contro gli States.
Correa, alleato del Venezuela e amico stretto di Hugo Chávez, subito dopo la morte del Comandante si è detto pronto a prendere le redini del socialismo del XXI secolo e a mantenere accesa la fiamma rivoluzionaria anticapitalista. Negli ultimi anni l’Ecuador ha avuto forti scontri con gli Stati Uniti, fino all’espulsione di due diplomatici americani nel marzo 2013. Senza contare la sfida all’Europa e all’America nel caso Assange.
Una prima vera ragione, secondo gli analisti, è che Correa – soprattutto adesso che è stato da poco riconfermato presidente col 57 per cento dei voti – si diverta a provocare Washigton, che nei suoi discorsi ha più volte definito «il nemico imperialista». E senza dubbio sa bene quanto in questo momento il caso Snowden possa irritare il governo di Obama. Anche se questa forma di retorica non dovrebbe far dimenticare quanto il Paese andino dipenda dalle esportazioni di greggio in Usa. Nessuna nazione ha così tanti scambi commerciali con l’Ecuador come gli Stati Uniti, che sfiorano i 9 miliardi di euro. A Washigton, Quito vende banane, gamberi, tonno, cacao. Ma anche quasi la metà della sua produzione petrolifera: mezzo milione di barili al giorno.
Ma si sa, «il nemico imperialista» è cosa comune, così un’altra forte ragione alla base della sineddoche Snowden-Ecuador sta proprio nell’appoggio del blocco sudamericano: secondo alcune indiscrezioni, sia L’Avana che Caracas, nonostante gli avvertimenti dei funzionari americani, sembrano essere disposte a fungere da porti di transito per l’ex informatico, in direzione Ecuador. E difficilmente gli altri Paesi vicini potrebbero fermare alla frontiera il cittadino statunitense durante il suo viaggio verso Quito.
Ma c’è di più, anzi per la precisione ci sono almeno quattro nomi: Jamil Mahuad Witt, Roberto e William Isaías, Mario Raúl Pazmiño. In ordine l’ex presidente dell’Ecuador fuggito negli States nel 2000, dopo aver ridotto al lastrico l’economia del Paese, due banchieri responsabili del crac della Filanbanco nel 1998 e l’ex direttore dell’Intelligence nazionale che divulgò informazioni riservate facendo saltare un’importante operazione contro il narcotraffico. Condannati dal Paese sudamericano, i quattro ecuadoriani vivono da anni sotto la protezione Usa, nonostante il mandato di estradizione che pende sulle loro teste. Insomma a Quito se lo pensano in molti: è il gioco della diplomazia e delle bugie. Tanto più che Usa ed Ecuador hanno un accordo di estradizione, ma non è applicabile per «crimini o delitti di carattere politico».
Dopo la protezione di Assange, che ha messo la sua organizzazione e i suoi legali a disposizione del giovane Edward, l’Ecuador è poi diventata quasi una «meta naturale». In fondo, come ha spiegato Michael Ratner, l’avvocato del fondatore di WikiLeaks, «le sue opzioni non sono molte. Snowden deve avere dalla sua un Paese disposto a scontrarsi con gli Stati Uniti. E non c’è un gran numero di nazioni disposte a farlo».
Di certo il caso Snowden non è solo una battaglia contro gli Usa. Se Rafael Correa deciderà di ospitare l’ex tecnico Cia, adducendo motivi di libertà civile, politica e di informazione, c’è da chiedersi a quale colore, nella classifica stilata ogni anno da Freedom House, sia stato associato il suo Paese. L’Ecuador è giallo, cioè uno Stato parzialmente libero. Soprattutto all’indomani dell’approvazione – lo scorso 14 giugno e dopo quattro anni di accese discussioni in Parlamento – della Ley de Comunicación che regola la stampa nazionale e dà al governo il potere di imporre sanzioni e limitare la libertà di pubblicazione. Il giorno dopo il quotidiano nazionale Hoy titolava «Il Correismo festeggia la fine del giornalismo», mentre La Hora pubblicava una vignetta satirica parecchio esplicativa.
L’arrivo di Snowden potrebbe così essere uno specchietto per le allodole tra il malumore generale. Senza contare che lo stesso informatico potrebbe diventare vittima inconsapevole dell’articolo 26 della legge, quello definito del «linchamiento mediático» (linciaggio mediatico). Qui si legge chiaro e tondo: « (…) proibisce la diffusione di una informazione che venga prodotta (…), pubblicata in concerto e ripetutamente attraverso uno o più media allo scopo di screditare una persona naturale o giuridica o ridurre la sua credibilità pubblica». Insomma ce n’è abbastanza per l’Nsa, l’Agenzia per la sicurezza nazionale, screditata sul Guardian e sul Washington Post dallo stesso Snowden.
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