Angela Merkel l’ha detto a chiare lettere: «non aspettative troppi soldi dall’Ue, prima bisogna pensare alle riforme per la competitività». Il summit di questa settimana, che Enrico Letta si ostina a presentare come epocale, quello che dovrà segnare la grande svolta dell’Unione, rischia in realtà di essere la proverbiale montagna che partorì il topolino, soprattutto in termini di misure per crescita e occupazione. Complici, peraltro, le elezioni tedesche del 22 settembre, che di fatti riducono praticamente a zero i margini di manovra di Berlino, ormai sempre più l’«azionista di maggioranza» dell’Unione Europea.
A sfogliare le bozze delle conclusioni del summit non c’è da esaltarsi. «L’unica vera novità – commenta un diplomatico di un grande paese Ue – è l’anticipo dei sei miliardi (decisi già a febbraio, ndr) per lottare contro la disoccupazione giovanile». Di cui 3, sia detto per inciso, in realtà già previsti da tempo proprio a questo scopo, gli altri sono semplicemente reindirizzati da altre voci di spesa. Questi soldi invece che spalmati sul settennato 2014–2020, saranno concentrati tra il prossimo anno e il successivo (per l’Italia si parla di 400–600 milioni di euro), e, si legge nell’ultima bozza, dovranno esser resi disponibili sin da gennaio «per primi esborsi nelle regioni dell’Ue che registrino un tasso di disoccupazione giovanile al di sopra del 25%». In più, qualche misura come quelle per «promuovere la mobilità dei giovani in cerca di lavoro», ad esempio rafforzando il programma «Your First EURES Job», o assicurando che il giù previsto Erasmus+ per la formazione in altri paesi sia pienamente operativo dal gennaio 2014. Il resto, naturalmente, dovranno farlo gli stati accelerando sulle riforme strutturali, e badando alla «importanza di spostare la tassazione via dal lavoro come mezzo per aumentare l’occupazione».
Poche chance ha Enrico Letta di vedere una svolta sulla famosa golden rule, la possibilità di scorporare dal computo del deficit, ai fini della procedura per disavanzo eccessivo, i cosiddetti «investimenti produttivi». Nella bozza si ricordano per l’ennesima volta «le possibilità offerte dall’attuale quadro fiscale Ue di bilanciare esigenze di investimenti produttivi con gli obiettivi di disciplina fiscale». Ma vuol dire solo che chi ha un deficit sotto il 3% del pil potrà avere qualche margine in più purché resti sotto quella soglia. Se l’Italia, per dire, nel 2014 arriverà a un deficit pari al 2,5% invece del programmato 1,8%, Bruxelles non protesterà. Sono cose già note, e già previste dai trattati, è tutt’altra cosa dallo scorporo degli investimenti produttivi dal computo stesso del deficit.
Il fatto è che i vari commissari Ue coinvolti non riescono a mettersi d’accordo sulla proposta che avrebbe dovuto presentare già la scorsa settimana. Si era parlato di consentire lo scorporo di almeno una fetta cospicua della quota nazionale di cofinanziamento per i progetti finanziati con fondi strutturali Ue (che non coprono mai la totalità), poi però i servizi intorno al commissario agli Affari economici Olli Rehn, a cominciare dal suo direttore generale, l’italiano Marco Buti, hanno sentito il fiato sul collo di Berlino. E hanno smosciato la proposta (riducendola alla possibilità di scorporare solo la differenza della quota di cofinanziamento tra un anno e l’altro, pochi spiccioli), con irritazione di altri commissari, a cominciare dal titolare dell’Industria Antonio Tajani.
Nella nuova bozza compare inoltre un titolo enfatico: «Un nuovo piano di investimento per l’Europa». «Nell’attuale contesto economico è cruciale ripristinare il normale flusso di prestiti all’economia e facilitare il finanziamento di investimento», si legge. Siamo al bis del famoso «patto per la crescita» del giugno 2012: suona bene, ma c’è pochino dentro. Si chiede all’ormai minuscolo bilancio settennale Ue 2014–2020 (960 miliardi di euro per sette anni e 28 stati membri) di fare da «catalizzatore», e di «attuare rapidamente» l’utilizzo di fondi strutturali e programmi per la competitività delle imprese (Cosme) e ricerca e innovazione (Horizon2020). Tra i pochi elementi un po’ più concreti, è il ruolo della Banca Europea per gli Investimenti (Bei). Nelle bozze i leader chiedono alla Bei di «fare pieno utilizzo del recente aumento di capitale di 10 miliardi», chiedendo di attuare il piano – già esistente – di aumentare la sua capacità di prestito del 50% nel 2013–15, con opportunità di prestiti per oltre 150 miliardi di euro. La bozza sposa inoltre l’idea – lanciata la scorsa settimana a Lussemburgo da Bei e Commissione Europea – di coniugare risorse della Banca e fondi Ue per, in sostanza, dare garanzie alle banche e consentire cartolarizzazioni, un effetto «leva» per fare in modo che riprenda il finanziamento delle imprese del Sud Europa. Il documento ipotizza tre opzioni, da una minima che potrebbe (almeno teoricamente) reperire tra i 55 e i 58 miliardi di euro per 580mila Pmi, a una più ambiziosa che potrebbe portare a 100 miliardi di euro per un milione di imprese. Per ora, però, i leader non scelgono. I dettagli dovranno esser messi a punti dai ministri finanziari a luglio.
«È meglio di niente», sospirano a Bruxelles. Del resto, pesa il fatto che del famoso Patto per la Crescita (che comunque si fondava sulla riassegnazione o il riorientamento di 120 miliardi di euro già stanziati nel bilancio Ue), poco è stato fatto – e su questo faranno il punto i leader. C’è il rischio che si faccia il bis. Ma magari chissà, al summit di giovedì e venerdì salterà fuori il famoso coniglio dal cappello. Non sono in molti, però, a scommetterci.