«Voglio esprimere il mio assoluto e profondo dissenso da qualunque progetto di riforma semi-presidenziale o presidenziale del governo, poiché non è accettabile che una persona eletta al vertice delle istituzioni poi faccia tutto ciò che gli passa per la testa. E che due favolosi venditori del Colosseo e della Fontana di Trevi assai popolari in Italia, come Silvio Berlusconi e Beppe Grillo, arrivino al Quirinale e conquistino facilmente il potere». Al Teatro Eliseo di Roma, alla presentazione dell’ultimo libro di Walter Veltroni, “E se noi domani. L’Italia e la sinistra che vorrei”, il fondatore de la Repubblica Eugenio Scalfari argomenta così la sua ostilità all’idea dell’elezione popolare di un capo dello Stato responsabile dell’esecutivo. Modello che, «riproposto in forma identica nei paesi dell’America latina, ha storicamente prodotto risultati nefasti».
La visione rilanciata dall’ex direttore de la Repubblica su una riflessione contenuta nel pamphlet di Veltroni, è la manifestazione di una corrente antica e assai viva nell’universo progressista e tocca corde profonde della cultura politica della sinistra, illuminandone ritardi e limiti storici. L’avversione al regime presidenziale nella sua versione nordamericana o francese affonda le proprie radici nella paura del governo forte e privo di argini, e quindi dell’avvento sempre possibile dell’uomo solo al comando che, grazie al prestigio e alle ampie prerogative derivanti dall’investitura diretta, può affermare un potere illimitato, arbitrario, autoritario. Si tratta di una convinzione permeata dalla sfiducia e da un atavico pessimismo sulla capacità dei meccanismi istituzionali ed elettorali di mettere in atto un profondo cambiamento nella realtà politica e nel costume civile.
In Francia, fra il 1958 e i primi anni Sessanta, avvenne che l’innovazione dell’architettura dello Stato promossa da Charles De Gaulle, imperniata sull’adozione del meccanismo maggioritario uninominale a doppio turno per l’elezione popolare dell’Assemblea nazionale e del Presidente, mutò per sempre il volto di una Quarta Repubblica assembleare e proporzionale frammentata in partiti ideologici e auto-referenziali, indebolita da governi di coalizione effimeri, minata alle radici da una crisi di legittimazione irreversibile.
Un panorama affine a quello che domina da decenni le diverse fasi dell’esperienza repubblicana al di qua delle Alpi. All’epoca il progetto portato avanti dal generale eroe della Resistenza fu osteggiato con intransigenza dalla grande maggioranza delle forze politiche della sinistra e dagli esponenti dell’intellighenzia progressista, in testa il radicale giacobino Pierre Mendes France e i rappresentanti del Partito comunista. Tutti coesi nel gridare al colpo di mano autoritario e all’atto di forza anti-costituzionale di De Gaulle. Con rarissime eccezioni, tra cui quella del radicale-socialista Francois Mitterrand e del cristiano-sociale Jaques Delors che proiettarono il loro modo di agire nella nuova cornice maggioritaria e semi-presidenziale, innovando e unificando la gauche in una prospettiva di governo riformatore.
E giunsero a vincere quella scommessa, contro ogni previsione dei nostalgici dello stallo politico-istituzionale. Mitterrand costrinse il generale a un teso ballottaggio nel voto presidenziale del 1965, rifondò su nuove basi il Parti socialiste verso la fine degli anni Sessanta promuovendo il rovesciamento dei rapporti di forza che fino ad allora avevano visto l’egemonia incontrastata del Pcf all’interno del campo progressista, sfiorò il trionfò nel 1974 contro il liberale Valery Giscard d’Estaing e conquistò l’Eliseo e la maggioranza assoluta in Parlamento nel 1981.
A giudizio del fondatore de la Repubblica, però, uno scenario del genere è improponibile in Italia. Prevale lo scetticismo sull’intelligenza dell’opinione pubblica e sulla sua capacità di scegliere con consapevolezza anche il vertice delle istituzioni, di non lasciarsi incantare dalle sirene del populismo e del qualunquismo, di discernere con spirito critico se messa nelle condizioni di farlo in una competizione aperta e limpida fra poche proposte di governo. Perché qui sono destinati a trionfare sempre i pifferai magici e i venditori di fumo.
Non è soltanto una radicata convinzione a determinare questa ostilità granitica. Perché Scalfari nega l’esperienza dei «liberali di sinistra e liberal-socialisti» del Partito d’Azione e di alcuni eredi autorevoli di Giustizia e Libertà con i quali ha nutrito la sua formazione a cui non smette di richiamarsi. Fu la sparuta e battagliera pattuglia dei parlamentari azionisti eletti in Assemblea Costituente, formata da personalità come Piero Calamandrei, Leo Valiani, Vittorio Foa, Riccardo Lombardi, Emilio Lussu, che in assoluta minoranza e del tutto inascoltata promosse un progetto istituzionale alternativo a quello parlamentare-proporzionalistico realizzato nella Carta fondamentale del 1948.
Consapevoli che è la fragilità di parlamenti e governi dominati dal potere di fazioni e correnti a costituire il terreno propizio per l’avvento di tirannidi di ogni natura, e che solo un complesso di istituzioni forti, egualmente legittimate dal voto popolare e da una dinamica bipartitica, potesse rappresentare l’antidoto verso avventure autoritarie, essi presentarono un modello costituzionale fondato sui pilastri filosofici e giuridici della democrazia politica nordamericana: presidenzialismo, federalismo, meccanismo di voto maggioritario uninominale per le assemblee rappresentative a ogni livello.
A quell’orizzonte si ispirò il repubblicano Randolfo Pacciardi, già comandante del Battaglione Garibaldi e delle brigate di anti-fascisti italiani accorsi in Spagna per difendere la repubblica democratica dall’offensiva franchista, il quale all’inizio degli anni Sessanta avrebbe dato vita al “Movimento per una nuova Repubblica” con l’obiettivo di realizzare nel nostro paese la riforma di De Gaulle. Motivo per cui venne espulso dal Partito repubblicano, accusato di tradimento dei valori costituzionali e di trame autoritarie, condannato a un isolamento politico che lo avrebbe accompagnato fino alla morte nel 1991. Tesi sconfitte forse perché alimentate da una lettura troppo profetica dei limiti e delle carenze istituzionali che per decenni hanno soffocato la nostra repubblica. Ma che oggi potrebbero essere rilette, valutate e riproposte con la necessaria apertura e laicità. Metodo che deve fondarsi su un’analisi storica del modello presidenziale e semi-presidenziale, ed escludere ogni analogia come quella compiuta da Eugenio Scalfari con le esperienze politiche latino-americane. Realtà che, se prevedono l’investitura popolare del Capo dello Stato responsabile dell’esecutivo, presentano una differenza rispetto alla democrazia statunitense e a uno dei capisaldi della sua natura liberale.
In tutte le repubbliche dell’America del Sud, il Congresso e i parlamenti vengono eletti con il metodo proporzionale: inevitabilmente si creano assemblee frammentate e polverizzate in numerose formazioni politiche, interessate alla partecipazione a porzioni di potere più che all’attuazione di un limpido indirizzo di governo. Ed è con le oligarchie delle varie fazioni che il Capo dello Stato forte dell’elezione diretta deve trattare per far passare qualunque sua iniziativa. Un presidente fortissimo di fronte a un parlamento frantumato e privo di un orientamento politico, come nella Germania di Weimar. Con il risultato di uno stallo pericoloso oscillante fra le trattative logoranti da una parte, e la prevaricazione-deragliamento del presidente dalle sue prerogative a danno del Parlamento dall’altra: rischi più volte emersi in forme tragiche per la solidità democratica delle istituzioni latino-americane.
Negli Stati Uniti la dialettica costante fra un esecutivo e un legislativo scaturisce dalla legittimazione popolare quasi identica dei due poteri, eletti entrambi con lo scrutinio maggioritario uninominale, che conferisce forza al responsabile del governo e altrettanta al singolo parlamentare anche della stessa formazione, e incoraggia una dinamica limpidamente bipartitica anche nel Congresso. Per cui i compromessi fra Casa Bianca e Campidoglio sulle leggi più importanti si basano su punti di partenza netti, e non mettono mai in pericolo la natura democratica del sistema con rischi di straripamenti anti-costituzionali. Un processo simile ha coinvolto la Francia della Quinta Repubblica, grazie al fenomeno di aggregazione e semplificazione del panorama partitico frastagliato e rigido in due grandi schieramenti alternativi promosso dal maggioritario di collegio a due turni, e alla valorizzazione delle prerogative dell’Assemblea nazionale realizzata grazie all’opera della Commissione per la modernizzazione e il riequilibrio delle istituzioni istituita nel 2007 da Nicolas Sarkozy e presieduta da Eduard Balladur. È traendo spunto da questo patrimonio di idee che Walter Veltroni motiva la sua risposta alle obiezioni avanzate dal fondatore de la Repubblica: «La scelta semi-presidenziale francese è una delle ricette per affermare una democrazia governante e fuoriuscire dalla palude della paralisi parlamentare e dell’ingovernabilità cronica, dalla fragilità dei processi decisionali democratici che costituisce il terreno propizio per tutti i pericoli autoritari e populisti, come già aveva scritto Piero Calamandrei nelle sue analisi storiche sull’avvento del regime fascista».