In questi giorni qualcosa in Turchia è entrato in crisi, ed è necessario capire esattamente di cosa si tratta per comprendere in profondità ciò che sta accadendo. Ad essere in crisi, infatti, non è il partito di maggioranza, quell’Akp (Partito di giustizia e sviluppo) di ispirazione islamista e imparentato alla lontana con quei Fratelli musulmani saliti alla ribalta dopo la Primavera araba. E non è nemmeno il suo leader Tayyip Erdogan, che con il suo partito gode ancora di un ampio consenso nel paese, e non solo nelle aree più rurali e conservatrici. No, per quanto siano entrambi il principale bersaglio delle proteste, non sono loro e il loro potere che, almeno per ora, subiscono un ridimensionamento.
Ad essere in crisi è invece la Turchia come modello; quel modello turco che negli ultimi due anni è stato usato come esempio per dimostrare come Islam politico e democrazia laica potessero convivere, e che è stato indicato come il traguardo ideale per gli stati in transizione della Primavera araba; un modello che, progressivamente, in questi stessi due anni ha di fatto tradito questo suo ruolo.
In questi giorni molto commentatori hanno cercato le radici della crisi del modello turco nell’“islamizzazione strisciante” operata dall’Akp, il quale negli ultimi anni avrebbe lasciato prevalere i suoi connotati islamisti al di sopra della propria fede democratica. Farne un problema di islamismo eccessivo o di fallimento dell’Islam politico può però essere fuorviante e lasciare in ombra alcuni aspetti molto importanti della questione.
Il partito di Erdogan, infatti, non ha in materia di diritti civili e morale pubblica posizioni molto diverse da quelle di gran parte della destra sociale europea o americana. Le sue posizioni in merito alla famiglia, l’omosessualità, il decoro pubblico, l’uso di droga e di alcol – quest’ultimo in questi giorni sottoposto a una legge molto restrittiva sull’uso in pubblico – sono perfettamente riscontrabili tra i partiti di destra di Polonia, Svezia, Italia, Portogallo, Spagna e perfino tra i repubblicani americani. Il problema vero alla base della crisi del modello democratico turco risiede invece nel modo in cui l’Akp, e il suo leader Tayyip Erdogan in particolare, hanno dimostrato di intendere l’esercizio del potere, un modo che ha sempre meno a che fare con una democrazia compiuta, soprattutto per quanto concerne la questione del rispetto delle minoranze e l’indipendenza dell’informazione.
In mesi in cui il parlamento sta scrivendo una nuova carta costituzionale su modello presidenzialista che potrebbe assicurare a Erdogan poteri straordinari a partire dal 2014, il governo sta portando avanti lo storico processo di pace con il Pkk curdo in modo assai criticato dall’opposizione. Scarsa copertura mediatica, omissioni e misteri sul modo in cui il processo viene condotto che hanno cominciato a suscitare malcontento, sia tra la maggioranza turca, sia fra la minoranza curda.
Questo malumore si aggiunge a quello generato da uno sviluppo economico sempre più dettato dall’alto; grandi opere nelle città realizzate scavalcando le comunità locali e le municipalità, eco-mostri realizzati senza i necessari studi sull’impatto ambientale e, soprattutto, senza riguardo per gli spazi verdi e i luoghi storici dei centri urbani, come è avvenuto a Istanbul per l’area di Taksim, dove si è innescata la scintilla delle proteste. Infine la legge sull’alcol, inutilmente restrittiva in un paese che consuma in media non più di 1,5 litri di alcol all’anno, una mossa tattica mirata a distrarre il dibattito pubblico dalla gravissima strage di Reyhanli, sul confine siriano, che ha fatto pensare per qualche giorno alla possibilità di scontri con la minoranza alevita (gli alawiti turchi).
E proprio gli aleviti hanno invano protestato alcuni giorni prima dello scoppio dei disordini a Taksim, in occasione dell’inaugurazione del terzo ponte sul Bosforo di Istanbul. Il ponte, criticato anche per l’impatto ambientale che potrebbe avere sull’area, verrà infatti intitolato dal governo a Solimano “il Crudele”, sultano ottomano che si macchiò di diverse sanguinose stragi nei confronti della minoranza alevita. Le proteste della comunità, che rappresenta il 10 per cento della popolazione turca, sono state completamente ignorate dal governo, che sostiene l’importanza di Salim come grande condottiero turco. L’episodio è perfettamente esemplificativo dello stile di governo dell’Akp di questi anni: interventi dall’alto, senza rispetto per l’ambiente circostante e per la sensibilità delle minoranze.
L’Akp è votato dalla maggioranza turco-sunnita. Se questa maggioranza approva un provvedimento, essa deve prevalere sulle proteste di qualunque altra comunità.
I media, in un paese in cui ancora ogni anno diversi giornalisti scomodi vengono intimiditi, aggrediti o perfino uccisi, si attengono alle posizioni governative su qualunque questione, arrivando addirittura a concedere scarsissima copertura agli eventi degli ultimi giorni a Istanbul.
Tutti questi non sono altro che molti degli elementi di malcontento che si sono accumulati nel tempo e che hanno creato un fronte di opposizione ancora minoritario ma sempre più folto e compatto tra gruppi e comunità tradizionalmente assai poco comunicanti fra loro: liberali, laici, nazionalisti e minoranze etnico-religiose; in generale tutti coloro che vedono con crescente preoccupazione il congelamento di tutti i progressi democratici compiuti dalla Turchia dalla seconda metà degli anni Novanta e che ora hanno trovato proprio nell’affermazione dei principi di democrazia un terreno comune su cui collaborare.
Trovare le radici dello stallo dello sviluppo democratico turco è difficile: l’Akp islamista non si sta rivelando in fondo meno democratico di tanti altri governi secolaristi che si sono avvicendati ad Ankara per tutto il dopoguerra. Tra i fattori ci sono certamente anche l’estrema incapacità dell’opposizione del Chp di offrire una valida alternativa, cosa che ha causato una sostanziale mancanza di alternanza politica per più di un decennio. Vi è inoltre l’estrema delicatezza della situazione esterna e interna del paese, che si trova alle prese contemporaneamente con la stesura della nuova costituzione, il processo di pace curdo e la guerra in Siria, questioni che probabilmente rendono il governo più tendente al pugno di ferro per la paura di poter perdere il controllo della situazione.
Ma fra tutti questi elementi contingenti, c’è chi giustamente sottolinea come il forte rallentamento del processo di riforme democratiche in Turchia sia cominciato in concomitanza con il sostanziale abbandono del processo di integrazione europea. La Turchia, il nuovo astro nascente della scena internazionale, divisa fra Europa e Medio oriente, Mediterraneo e Asia, con un sistema politico dalle apparenze moderne e una economia galoppante si è sempre sentita ingiustamente sminuita da una Unione europea troppo esigente, bacchettona ed economicamente sempre più stagnante. Negli ultimi anni l’allontanamento da Bruxelles è diventato sempre più netto, facendo parlare di vero e proprio congelamento sine die del processo di integrazione nell’Unione. La Turchia si è anzi spostata verso est, verso il Medio oriente e l’Asia, presentandosi come nuovo leader e modello per il mondo arabo, e accedendo alla Shangai cooperation organization, l’organizzazione di stati dell’Asia centrale dominata da Russia e Cina vista come molto più attraente economicamente e assai meno esigente sulle questioni di democrazia e di riforme interne.
Chissà se ciò che accade in questi giorni non serva a dimostrare ad Ankara che il Vecchio Continente, al di là delle venature xenofobe di alcune posizioni della sua destra politica, con le sue pretese e i suoi richiami sulle riforme, dopotutto, forse non aveva completamente torto.
*Ispi research assistant