Turchia o Iran, un’intera generazione cova la rivolta

Intervista a Abdolmohammadi: Teheran verso il voto sull’onda dei moti di Istanbul

L’eco delle manifestazioni in Turchia risuona tramite il web in tutto il mondo. Ma c’è un Paese – o meglio, un regime – per cui i canti e gli slogan dei giovani turchi assumono un tono particolarmente sinistro e inquietante. Si tratta dell’Iran, il vicino orientale della Turchia. Tra meno di dieci giorni la Repubblica Islamica andrà al voto per eleggere un nuovo presidente, dopo i due mandati di Ahmadinejad. Il timore per il regime è che possano ripetersi le sollevazioni delle scorse elezioni, nel 2009, quando milioni di iraniani scesero in piazza dando vita al movimento della “Onda Verde”.

Al di là delle evidenti differenze (l’una è una democrazia, l’altro una teocrazia; gli uni sono sunniti, gli altri sciiti) esistono numerosi punti di contatto tra la Turchia e l’Iran. Sono entrambi Stati con una forte identità nazionale, in parte legata ai passati imperi, ottomano e persiano, e dove negli anni ’20 e ’30 lo Scià Pahlavi in Iran e Kemal Atatürk in Turchia hanno imposto una svolta laica e nazionalista al Paese. La popolazione è musulmana ma non araba – tranne un’esigua minoranza – e i giovani under 35 sono una maggioranza schiacciante (circa il 70%). Con la rivoluzione del 1979 e la successiva presa del potere da parte degli estremisti islamici, l’Iran ha intrapreso un cammino molto diverso dalla Turchia, alleato di ferro della Nato e con un esercito sempre pronto a prendere il potere per difendere la laicità e i principi del kemalismo (e il proprio potere). L’opposizione dei giovani turchi alla svolta filo-islamica portata avanti dal presidente turco Erdogan negli ultimi anni da un lato, e la crescente insofferenza dei giovani iraniani verso la teocrazia dall’altro, potrebbero portare però le strade dei due Paesi a convergere ancora una volta.

«I giovani turchi che manifestano per la loro libertà, fosse anche quella di baciarsi in pubblico o bere una birra, sono simili e vicini ai giovani iraniani che guardano le loro imprese sui social media», dice Pejman Abdolmohammadi, docente di storia e istituzioni dei Paesi islamici alla facoltà di scienze politiche all’Università di Genova, iraniano con cittadinanza italiana. «Se queste proteste possono avere un’influenza, credo sarà più che altro a livello psicologico. Ma non reputo probabile che a queste elezioni si scateni una nuova Onda Verde. Certo, è sempre difficile prevedere l’esplosione di una rivolta».

Quali sono gli elementi su cui fonda la sua previsione?
Da un lato è vero che oramai la maggioranza della popolazione iraniana è ostile alla Repubblica Islamica. Ed è vero che la situazione economica nel Paese è peggiorata ulteriormente rispetto al 2009. Ma in questo momento la mia impressione è che siamo ancora in una fase post-depressione per lo snaturamento e la repressione delle proteste delle scorse elezioni. Sembra prevalere una certa rassegnazione.

In che senso “snaturamento” delle scorse proteste?
L’Onda Verde è stata velocemente trasformata in un Carnevale Verde, con personaggi legati alla teocrazia che hanno provato – e sono riusciti – a far rientrare nel campo di una contestazione interna alla repubblica islamica una protesta che ne prendeva di mira l’esistenza stessa. Anche stavolta, con l’avvicinarsi delle elezioni si tende a rappresentare l’Iran come una democrazia, pur limitata, dove a una forza conservatrice se ne oppone una riformista. Ma è tutta un’illusione, la vera forza politica di opposizione sono quei 50 milioni di giovani iraniani, tra cui tantissime donne, che non vogliono lo Stato teocratico e che potrebbero disertare le urne. Si rischia un’astensione dell’80%.

Quindi secondo lei i candidati riformisti, Mohammad Reza Aref e Hassan Rowhani, non possono rappresentare la rottura col passato?
I “riformisti” sono comunque parte del sistema. Svolgono la funzione di pannicello caldo, e quando c’è sentore che l’insofferenza nella popolazione stia per tracimare vengono usati per assorbire il malcontento. Non è un caso che negli ultimi giorni Rowhani stia alzando i toni: spera di intercettare una parte dei “veri” oppositori della repubblica islamica. Lo stesso Rasfanjani – sedicente leader dei riformisti, candidatosi ma non ammesso a queste elezioni – è una pedina del gioco. Negli anni ‘90 contribuì a perseguitare ed eliminare gli intellettuali iraniani anti-regime. La sua esclusione da queste elezioni serve in realtà a Khamenei (Guida Suprema dell’Iran, ndr.) per coprire quella di Rahim Mashaei, consuocero di Ahmadinejad. Lui sì che avrebbe potuto dare problemi agli Ayatollah.

In che modo? Una figura vicina all’ex presidente ultraconservatore come può rappresentare la rottura col regime?
Le cose sono molto complicate. Mashaei è una figura molto popolare in Iran e porta avanti una politica nazionalista, che vuole rispolverare l’identità persiana, cosa che non piace al clero sciita. Se lo avessero ammesso alle elezioni sarebbe apparsa manifesta la spaccatura interna della repubblica islamica. Questa è una delle condizioni necessarie perché scoppino nuove proteste: gli iraniani devono avere la sensazione che sia possibile abbattere il sistema. Nel 2009 sembrava che fosse così, ma l’abilità del potere di assorbire il colpo e di reprimere i possibili focolai di rivolta ha lasciato molta disillusione.

Dunque come prevede che andranno queste elezioni?
I due candidati con più chances tra quelli ammessi sono Mohammad Baqer Qalibaf e Sajid Jalili. Il primo è un ex Pasdaran (le Guardie della Rivoluzione, potenza economica e militare dell’Iran ndr.), sindaco di Teheran molto popolare. Jalili è l’attuale capo negoziatore per le questioni relative al nucleare iraniano, è molto più vicino alla Guida Suprema e gode del sostegno degli ultraconservatori. In particolare dei Basiji (paramilitari estremisti islamici ndr.) e dell’Hojjattieh, una specie di Opus Dei islamico-sciita, molto potente e guidata dall’Ayatollah Mesbah Yazdi. Non va poi sottovaluta una terza candidatura, quella di Akbar Velayati, uomo vicinissimo da sempre a Khamenei, ma forse troppo poco popolare per vincere.

Cambia qualcosa che vinca l’uno o l’altro o, essendo entrambi conservatori vicini al regime, è quasi indifferente?
No, delle differenze ci sono. Qalibaf e Jalili sono vicini a due distinti “settori” della Repubblica. Il primo è appoggiato da larga parte dei Pasdaran, il secondo più dal clero. Qalibaf potrebbe quindi creare dei problemi agli Ayatollah e a Khamenei se conquistasse il potere e poi giocasse a smarcarsi, un po’ come ha fatto Ahmadinejad.

Si rivedrebbe insomma quella frattura nel regime che, se sfruttata dagli oppositori, potrebbe portare al crollo dello stesso?
Esatto. Io credo che il regime sia destinato a sfaldarsi, prima di tutto per una questione anagrafica. Attualmente nella fascia tra i 35 e i 55 anni c’è praticamente il vuoto: o sono morti durante la guerra con l’Iraq, o sono espatriati o sono diventati fedeli al regime. La vera forza che si sta mettendo in moto sono gli under 35, a cui serviranno ancora 5 o 6 anni per crescere, diventare influenti e poter poi sfruttare il prossimo scoppio di proteste.

Quindi possiamo dire che le Repubblica Islamica nell’immediato non ha di che temere?
La psicologia di massa è difficile da prevedere. Di sicuro già esiste, come dicevo, una forza politica di “vera” opposizione, che sono i milioni di giovani ostili al regime. Io credo che quando si metterà in moto non avremo più una “Onda Verde” (verde è il colore dell’Islam), ma un’Onda che abbatterà la teocrazia in nome di uno Stato più laico e meno invasivo nella vita delle persone.

Un po’ le stesse ragioni che ancora oggi stanno portando in piazza tanti giovani turchi a Istanbul, Ankara e Smirne.

Twitter: @TommasoCanetta

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