La situazione del mercato del lavoro per i giovani in Germania, Italia e Spagna è inevitabilmente caratterizzata dalle marcate differenze nei cicli economici dei tre paesi. I recenti anni di boom in Germania hanno sensibilmente migliorato i principali indicatori: il tasso di impiego per i giovani fra i 15 e i 24 anni è aumentato di 2 punti percentuali nel corso nel decennio, il tasso di disoccupazione è diminuito di 2 punti e il Neet (Not in Education Employment or Training) rate è in leggero calo.
I due paesi mediterranei, come è noto, si trovano in una situazione ben diversa, la più grave recessione dal dopo guerra ha inciso e continua ad incidere negativamente sullo stato dell’occupazione. Il tasso di impiego è infatti diminuito di ben 6 punti percentuali in Italia e di addirittura 16 in Spagna, mentre la disoccupazione giovanile avanza inesorabilmente.
Tuttavia, quest’ultimo indicatore non rispecchia appieno la situazione dei giovani, in quanto la forza-lavoro diminuisce per effetto della maggiore propensione a investire in capitale umano (il tasso di iscrizione al livello successivo di studi oltre il minimo obbligatorio è aumentato sia in Italia che in Spagna).
Una misura che meglio fotografa la realtà di questi due paesi è il tasso di Neet, aumentato sensibilmente nel corso dell’ultimo decennio fino a sfiorare il 20% in entrambi i paesi. Questo dato implica che un quinto dei giovani italiani e spagnoli si trova senza lavoro e senza un’adeguata partecipazione alla formazione; il che è particolarmente grave perché nuoce alla prospettive di lungo periodo sia in termini di occupabilità sia di salario. Alla luce di questi dati, la situazione è perciò – checché ne dica l’economista Daniel Gros – molto preoccupante.
Detto ciò, va anche ricordato che nell’ultima decade, la situazione relativa dei giovani non è mai stata particolarmente brillante nemmeno negli anni migliori. Il tasso relativo di disoccupazione, specialmente in Italia, segnala che già nel 2002 la probabilità per un giovane di essere disoccupato era più di tre volte maggiore rispetto a quella di un adulto (contro l’1,2 volte in Germania e le 2,2 in Spagna). Questo valore non è cambiato durante la crisi: i giovani sono certamente più svantaggiati a causa dell’aumento generale della disoccupazione ma non più di quanto non lo fossero – in termini relativi – negli anni duemila.
La situazione è deprimente anche per i più fortunati che riescono a trovare una occupazione: una volta su due è grazie a un contratto temporaneo. La dualità del mercato del lavoro è un problema che concerne la UE in generale e che necessiterebbe delle misure decisamente più radicali; le riforme che si sono susseguite e i cui effetti si stanno ancora dispiegando sembrano non avere intaccato questo particolare problema strutturale.
Le uniche note positive vengono dalla scuola. Gli abbandoni prematuri, anche a causa di minori probabilità di trovare un impiego (che disincentivano l’abbandono scolastico) sono diminuiti sensibilmente sia in Italia che in Spagna, tuttavia i tassi rimangono quasi doppi rispetto a quelli tedeschi. C’è ancora molto da fare, soprattutto in termini di qualità dell’insegnamento affinché i giovani possano acquisire dalle scuole superiori le competenze necessarie per competere brillantemente nel mercato del lavoro o nel proseguimento degli studi.
Per quanto riguarda invece il supporto delle politiche fiscali e del mercato del lavoro, duole sottolineare come la stretta fiscale susseguente alla crisi del debito sovrano abbia impattato negativamente sul cuneo fiscale giovanile. I dati mostrano che un single senza figli con un salario pari al 67% di quello medio (definizione che più si avvicina al gruppo giovanile) ha subito un aumento di quasi due punti percentuali nella quota di fiscalità e di contributi versata allo stato, arrivando al 45% in Italia e al 37% in Spagna . Viceversa, in Germania e nella zona euro il cuneo fiscale, seppur alto, è diminuito. Questo è purtroppo uno dei tanti costi pagati nel periodo di crisi, gestito prettamente dal lato delle entrate.
La protezione dei giovani disoccupati in caso di perdita del lavoro è un altro tasto dolente per l’Italia ed è soggetta al noto problema della mancanza di sistematicità nel nostro paese. Infatti, se i tassi di copertura nei momenti iniziali della fase di disoccupazione sono vicini alla media dell’area euro, la copertura per i disoccupati di lungo periodo è inesistente. Questa è una peculiarità tutta italiana che la riforma Fornero non sembra avere affrontato in maniera convincente. È certamente vero una eccessiva generosità del sistema di sussidi alla disoccupazione disincentiva la ricerca attiva di un lavoro, tuttavia un vasto numero di studi mostra che una copertura ben disegnata abbinata a servizi pubblici attivi per l’impiego strutturati correttamente possano migliorare il “matching” lavoratore-impresa, con effetti positivi su salari e produttività.
Sono proprio le spese in politiche attive (organizzazione dei servizi per l’impiego, formazione, incentivi per l’impiego e per start-up) una delle maggiori criticità del sistema italiano. La spesa attiva, che dovrebbe essere anti-ciclica, è paradossalmente diminuita durante la crisi. Un maggiore numero di disoccupati da gestire richiede un maggior numero di risorse per i servizi pubblici all’impiego: nel 2011 mentre il tasso di disoccupazione varcava la soglia dell’8%, l’Italia spendeva un misero 0,34% di Pil per le politiche attive – contro lo 0,8% della Germania (con disoccupazione relativamente più bassa) e quasi l’1% della Spagna. È qui che c’è da migliorare e di molto per avvicinarci alle best practice dei paesi dell’Europa settentrionale.
(Fonte dati: Eurostat, Ocse)