Una firma di tutto riposoAlla freelance in Siria: “Lettera troppo narcisista”

In risposta a Francesca Borri

Qualche giorno fa il giornalista professionista Gianni Riotta ha mandato un tweet a proposito di un pezzo autobiografico scritto dalla giornalista freelance Francesca Marxiana Borri per la Columbia Journalism Review. Nel tweet Riotta si lamenta del fatto che il pezzo della Borri non abbia ancora creato un dibattito in Italia (lo farà dopo il lancio di Riotta), mentre il pezzo della Borri è un resoconto della carriera di un giornalista freelance in difficili luoghi di guerra, incentrato sugli alti rischi e costi monetari di questa attività, le incomprensioni dei committenti che chiedono pezzi più “truculenti” e gli scarsissimi ricavi (70 dollari al pezzo, in media).

Pensavo twitter esplodesse a reportage @francescaborri @cjr su vita terribile freelance, niente sbagliavo 🙁 twitti http://t.co/agpZrjCdmr

— Gianni Riotta (@riotta) July 11, 2013

Vorrei mettere per iscritto tre cose a proposito di questo pezzo di Francesca Marxiana Borri: quello che nel pezzo c’è, quello che non c’è e le implicazioni che se ne possono trarre.

Quello che nel pezzo c’è

Nel pezzo c’è molto narcisismo e vittimismo: l’autrice si lamenta di essere sottopagata (molto probabilmente a ragione), ma evidentemente nessuno l’ha costretta a fare il giornalista freelance in teatri di guerra. Sulle lamentele relative al lavoro che si fa, mi permetto di avere una visione abbastanza tranchant: se i benefici di tale lavoro sono superiori ai costi, allora il gioco vale la candela e lamentarsi è inutile, a meno che serva a ottenere minori costi o maggiori benefici. Se i benefici sono inferiori ai costi e le lamentale non riescono a invertire questa disparità, allora conviene smettere di lamentarsi e scegliere un altro lavoro.

Trovo poi particolarmente fastidioso lo stile del pezzo: è troppo emotivo, confuso nel susseguirsi di episodi e di argomentazioni. Sia ben inteso: mi piace il Gonzo Journalism di Hunter S. Thompson, fatto di autobiografia e flusso di coscienza, ma qui il risultato finale in termini di qualità è ancora lontano anni luce (almeno per ora).

Quello che nel pezzo non c’è

1) Trovo piuttosto divertente che nel pezzo non venga menzionato il committente principale di Francesca Borri, cioè il Fatto Quotidiano. Dal punto di vista della struttura dei costi, molto probabilmente il quotidiano suddetto non pare sgradire il prezzo basso che si paga ai freelance.

2) Francesca Marxiana Borri fa un resoconto dei costi relativi alla permanenza in un luogo difficile come la Siria, ma la questione è: poiché i ricavi totali -nanche a scrivere come dei forsennati – paiono molto più bassi dei costi, chi paga la differenza? Da una intervista si apprende che Francesca Marxiana è figlia del professore e architetto Dino Borri, per cui si può anche sospettare che la famiglia possa sussidiarla a piè di lista, anche se non si può escludere che la differenza tra costi e ricavi sia coperta dall’accensione di debiti. La questione non è irrilevante, perché un lavoro da libero professionista (e non solo) dovrebbe tradursi in una differenza positiva tra ricavi e costi, almeno nel futuro. Se ciò non accade, mi spiace, non è un lavoro che produce reddito, ma un’attività di consumo: spendo risorse per il (lamentoso) piacere di fare il giornalista freelance, oppure qualcuno le spende per me.

Implicazioni

A livello politico, si potrebbe decidere che l’attività giornalistica debba essere finanziata dal settore pubblico (a livello centrale o locale) per le conseguenze positive che ha e che non sono tenute in considerazione sul mercato: in termini tecnici si parla di “fallimenti del mercato” (pessima ma ormai consolidata traduzione di “market failures”, quando sarebbe meglio usare il termine “malfunzionamenti”). Se si decide altrimenti, i cittadini devono essere disposti a pagare per leggere articoli o ascoltare un telegiornale, oppure devono esserci inserzionisti pubblicitari sufficientemente disposti a pagare per sottoporre i propri prodotti o servizi all’attenzione dei primi. Evidentemente un giornale, una rivista o un telegiornale sono prodotti complessi, ragion per cui i direttori responsabili di questi hanno importanti gradi di libertà nella scelta del mix di articoli e servizi.

In relazione ai reportage di guerra per cui i giornalisti freelance sono sottopagati, i casi sono pertanto due: in assenza di un intervento pubblico di sussidio, potrebbe esserci una domanda insufficiente da parte di lettori e ascoltatori per quel tipo di articoli, oppure gli editori pagano in maniera inefficiente i propri collaboratori e dipendenti. Sotto questa seconda ipotesi, potrebbe essere che le aziende editoriali pagano troppo i giornalisti professionisti che hanno un contratto di lavoro dipendente, e troppo poco i collaboratori non coperti da tale contratto. Forse queste aziende editoriali potrebbero fare più utili pagando in maniera più bilanciata chi scrive per loro.

Ecco che il mercato del lavoro duale, cioè diviso tra insider e outsider, colpisce ancora, e fa male a molti (ma non a tutti).

Twitter: @ricpuglisi
 

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