Esiste una politica estera cinese? La domanda può sembrare banale: in fondo, qualsiasi azione di Pechino nei confronti di paesi stranieri può essere interpretata come “politica estera”. La presenza in Africa, le importazioni di petrolio dal Medio Oriente, i progetti di basi militari nell’Oceano Indiano e le tensioni navali nel Pacifico sembrano delineare una strategia sempre più aggressiva in tutto il globo. Una certa passività in merito alle questioni internazionali – ivi incluse il conflitto siriano e l’agenda nucleare iraniana – denuncerebbero una personalità autonomista e cinica, che proprio in quanto tale sarebbe “personalità politica”.
Un libro di David Shambaugh, direttore del China Policy Program alla George Washington University, ha cercato di risolvere questo interrogativo – e le opinioni del noto esperto di politica cinese sono sorprendenti. Il libro si intitola China Goes Global: The Partial Power (Oxford University Press): si afferma che «gli elementi del potere globale cinese sono sorprendentemente deboli e molto irregolari. La Cina non è tanto importante, e certamente tanto influente, quanto ritenuto dal sentire comune».
Inoltre, «la Cina deve ancora percorrere un lungo cammino prima di diventare – se mai lo diventerà – un vero potere globale. E non “governerà mai il mondo”. […] La Cina sta lasciando un’impronta sempre più ampia in tutto il globo, ma non è particolarmente profonda. […] L’attrattività cinese come “modello” per gli altri è da debole a inesistente”. Sulle alleanze cinesi (Russia, Pakistan, Korea del Nord), Shambaugh sostiene che «forti elementi di sfiducia s’insinuano sotto la superficie di relazioni stato-a-stato apparentemente armoniose. In altre parole, la Cina è nella comunità delle nazioni, ma per molti aspetti non è realmente parte della comunità».
La lettura è originale, ma può ispirare un dubbio: che si tratti solo di una tattica temporanea? In fondo, lo sosteneva anche Deng Xiao Ping: «occorre nascondere gli artigli mentre si diventa una grande potenza». La tradizione politica cinese, poi, per secoli ha preferito erigere mura di difesa e isolamento, piuttosto che creare avamposti per la presenza e il commercio internazionale – come hanno fatto Venezia, l’Olanda e l’Inghilterra.
Linkiesta ha intervistato due tra i maggiori esperti statunitensi sulla questione cinese, per comprendere meglio in che termini si può parlare di Cina come “potenza matura”, o se la strada è sempre quella tracciata da Deng. Si tratta di Pieter Bottelier, professore di “China Studies” alla Johns Hopkins University; e Avery Goldstein, professore di “Global Politics” alla University of Pennsylvania.
Un tratto della Grande Muraglia (Flickr © jackfre2)
L’approccio politico cinese descritto da Shambaugh è “temporaneo”, o è già il prodotto di una “potenza matura”?
Bottelier – Non penso che nessuno, neanche il più intelligente dei cinesi, sia in grado di rispondere con sicurezza, ma io sono d’accordo con l’idea di Shambaugh che vede la Cina come “potenza parziale”. Se il passato è una guida per il futuro, mi aspetto che la Cina diventerà un potere globale molto diverso, più concentrato a guadagnare riconoscimento internazionale per il suo potere, piuttosto che attraverso interventi militari od occupazione coloniale.
Goldstein – La situazione attuale è una riflessione degli squilibri cinesi: potere economico superiore a quello militare, e potere economico superiore al soft power. La possibilità che la Cina diventi più influente e potente nei prossimi anni dipenderà dalla capacità dei suoi leader di affrontare i molti problemi domestici, dall’economia alla politica. Nel caso cinese, le linee guida della strategia internazionale sono in gran parte frutto dell’esigenza del partito cinese di mantenere il sistema mono-partitico.
La Cina sarà mai in grado di sviluppare “soft power” – posto che ne abbia bisogno?
Bottelier – Non nel senso statunitense od occidentale, a meno che la Cina non cambi il proprio sistema politico nella direzione di valori genuinamente democratici, inclusa la libertà di stampa, la responsabilità “dal basso” di politici e amministratori pubblici, il riconoscimento di errori passato (Tien-an-men, il “grande balzo in avanti”, la Rivoluzione Culturale), l’uguaglianza sociale, l’indipendenza della giustizia e la chiusura del sistema dei laojiao (i campi di lavorii forzati).
Goldstein – Sono scettico rispetto all’idea di “soft-power”, perché non ho ancora incontrato nessuno in grado di dimostrare che esso consenta a un paese di spingere altri a comportarsi in un modo che altrimenti non sceglierebbero (la definizione di potere). Da qui, non penso che il soft-power sia necessario o sufficiente alla Cina per avere maggior potere. Una Cina riformata politicamente potrebbe avere più ammiratori nel mondo, ma non sarebbe assolutamente necessario perché il paese completi la sua ascesa come vera potenza globale.
Le esportazioni e gli investimenti cinesi all’estero hanno implicazioni politiche? Sembra che ciò stia accadendo in Africa (un “pocket of favorability” secondo Shambaugh). È possibile che l’Europa diventi la “nuova Africa cinese”?
Bottelier – L’aiuto allo sviluppo cinese in Africa è privo della condizionalità occidentale. L’Europa è un obbiettivo preferenziale per gli investimenti esteri cinesi, ma non per l’assistenza allo sviluppo. La Cina proverà a sfruttare le divisioni tra i paesi europei a proprio vantaggio economico e politico, ma le possibilità che la Cina guadagni influenza sull’Europa sono molto limitate al momento.
Goldstein – In realtà, il problema cinese spesso è che non ci sono aspetti politici collegati alla presenza economica all’estero.
Sembra che il modello di basso costo del lavoro, credito facile e crescita trainata dalle esportazioni sia in crisi in molti paesi. Il costo del lavoro cresce, il credito crea inflazione, e non ci sono mercati infiniti per assorbire esportazioni all’infinito. Il Brasile e la Turchia stanno attraversando una crisi simile. Possono essere limiti anche per la Cina?
Bottelier – La Cina sta provando urgentemente a cambiare il proprio modello di crescita, per focalizzarsi sull’alta tecnologia, l’innovazione domestica e il consumo interno – priorità annunciate dal governo nel marzo 2013.
Goldstein – È corretto pensare a questi limiti per la Cina. Il partito lo sa e ne parlerà alla prossima plenaria. Se le riforme funzioneranno, porteranno però a un’economia con aspettative di crescita massima del 6-8%, anziché dell’8-10%.
La Cina è una “tigre di carta”?
Bottelier – No. la Cina è già una Potenza economica e militare. Se riesce a sviluppare innovazione tecnologica domestica e “soft-power” internazionale (come definito da Joe Nye) diventerà una vera tigre.
Goldstein – Penso che la Cina sia meno potente di quanto non credano molti che sono allarmati dalla sua ascesa. Ma è molto più potente di quanto non sia stata per secoli, e potente a sufficienza affinché un qualsiasi paese (inclusi gli Stati Uniti) che incorra in un conflitto con la Cina dovrebbe sostenere pesanti costi economici e militari, anche se alla fine dovesse prevalere.
Twitter: @radioberlino