Con questa malagiustizia non cresceremo mai

Quando i tribunali affossano le imprese

L’Italia è il Paese con il maggior numero di sentenze emesse dalla Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo non ancora eseguite. Sono ben 2569. Poi viene la Turchia con 1780 e la Russia con poco più di mille. Nel 2012 l’Italia è stata condannata a versare a propri cittadini indennizzi per una cifra vicinissima ai 120 milioni di euro, di cui 108 soltanto a seguito di tre sentenze. E tutte e tre per violazione dei diritti di proprietà.

Non solo: 49 milioni di risarcimento (sentenza del 2009) sono legati alla vicenda del sequestro di Punta Perotti a Bari. Uno degli immobili più «famosi» d’Italia cui è associata una storia per fortuna più unica che rara. Di recente, Miche Matarrese, uno dei fratelli proprietari dell’area, ha presentato un libro “Assolti e confiscati – Storia di una straordinaria ingiustizia”, che ripercorre dal 1987 al 2012 la storia dei tre palazzi sul lungomare sud di Bari prima autorizzati, poi costruiti, quindi confiscati e, infine, abbattuti nonostante le assoluzioni in ogni grado di giudizio.

Il risarcimento in particolare fa giustizia della sentenza della Cassazione del 2001, quando gli imprenditori vennero assolti dalle accuse, ma contemporaneamente si videro confiscare tutta la proprietà. Una scelta, a detta di Strasburgo, «arbitraria» e da riparare con 49 milioni di euro. Ovviamente del contribuente italiano.

Cifra enorme e simile a quella imposta per il rimborso dell’esproprio dei terreni di Immobiliare Podere Trieste che ha avviato (a ragione) una causa con lo Stato italiano nel lontano 1984. Infine c’è la condanna per la mancata assegnazione delle frequenze Tv a Centro Europa 7, a cui i togati di Strasburgo hanno accordato un indennizzo di 10 milioni di euro. A queste tre sentenze se ne aggiungono altre per 11 milioni. In tutto, quasi il doppio della cifra che gli altri Paesi del Consiglio d’Europa messi assieme si sono visti chiedere da versare ai rispettivi cittadini penalizzati da mala giustizia.

Il 2012 un caso isolato? No. La Corte per i diritti dell’Uomo ha pubblicato le statistiche sulle sentenze europee emesse dal 1959 al 2011: e l’Italia, oltre a risultare di gran lunga il più condannato tra gli Stati dell’Ue nel totale delle violazioni (quasi il triplo della Francia, 10 volte la Germania, oltre 20 volte la Spagna), alla voce “diritto al giusto processo” presenta 245 condanne. In generale, tanto per inquadrare meglio la situazione dell’Italia, è bene sapere che il 7% delle cause sottoposte alla Corte di Strasburgo è a firma di italiani, i quali da soli ottengono circa il 18% delle sentenze di rimborsi.

Ovviamente a farla da padrone sono le tempistiche dei processi penali, di quelli civili e della cause di fallimento delle aziende. Solo questi ultimi due filoni contano ben 800 fascicoli. Seppur in minoranza (e spesso dimenticate dall’opinione pubblica) le tempistiche per ottenere giustizia dopo un fallimento sono ancora oggi, dopo la riforma delle procedure, bibliche. Rendendo ancora più drammatica una situazione aggravata dalla crisi e dal numero crescente di fallimenti.

Da gennaio a maggio 2013, secondo i dati Unioncamere, 5.334 aziende sono state costrette a chiudere. In pratica è come se ci fossero 35 fallimenti al giorno, tre ogni due ore. Un quadro disastroso che vede molti imprenditori in crisi non solo per i debiti accumulati dalla propria azienda, ma spesso soprattutto per l’impossibilità di riscuotere i crediti. La regione in cui si sono verificati più fallimenti è la Lombardia con ben 1211 fallimenti, 95 in più dell’anno scorso, 525 solo a Milano. Al secondo posto c’è il Lazio con 595 chiusure, l’11,4% in più del 2012, ben 466 nella città di Roma, poi c’è il Veneto con l’11,5% in più dell’anno scorso, 454 aziende chiuse in cinque mesi. Il Sud pur con numeri più bassi, batte il Nord in termini percentuali. La Calabria con 153 aziende fallite ha segnato un +24,4% rispetto allo stesso periodo del 2012.

Di contraltare aumentano le richieste di concordato (+277% nel settore immobiliare, 141% nel comparto edile e 22% nell’agroalimentare) per evitare i fallimenti ma, al momento, la procedura non serve molto perché di fatto aumenta i tempi del recupero crediti. In un periodo di forte crisi, sembrerebbe paradossale ma facilitare l’uscita dal mercato è un modo semplice per creare nuove opportunità d’impresa e quindi aiutare la ripresa. Eppure l’Italia, a detta di Strasburgo, è recidiva anche su questo fronte. Lo si comprende dalle diverse sentenze a favore di cittadini italiani che hanno avuto la pazienza dopo anni di attesa di rivolgersi a un quarto grado di giudizio. Abbiamo preso due esempi a campione per toccare con mano quanto le lungaggini della giustizia pesino sull’intero sistema delle medie e piccole aziende.

Il primo è una vera e propria odissea, un labirinto di cause e ricorsi. Una Srl (Mastromauro srl) nel marzo del 2002 fa ricorso per violazione del termine ragionevole di durata di un processo civile con oggetto la revocatoria fallimentare a carico di una società commerciale. Tempo complessivo per tre gradi di giudizio: nove anni e sei mesi. Tutto nasce nel 1989, quando il curatore fallimentare di una società, che aveva pagato al ricorrente fatture per l’equivalente di 22mila euro nei 12 mesi prima del crac, ne chiede la revocatoria. Prima udienza nel novembre dello stesso anno. A febbraio del 1990 i ricorrenti chiamano alcuni testimoni per dimostrare di non essere mai stati a conoscenza dello stato di insolvenza del fallito. Le udienze slittano di un altro anno e poi alla fine del 1993 il collegio si pronuncia a fare del curatore. La Srl impugna nel 1995 perché ritiene non siano state prese in giusta considerazione le testimonianze. A quel punto il curatore non si presenta all’appello (due sedute) e viene dichiarato contumace ma si fa vivo alla discussione finale il 30 aprile del 1996 e infine si costituisce nella stessa occasione depositando una comparsa conclusionale. La Corte d’appello si pronuncia contro il ricorrente, che impugna in Cassazione, mentre il curatore controimpugna a sua volta. Il 17 settembre del 1998 arriva l’ultimo grado di giudizio. Risultato? Inammissibile.

Il motivo è, ovviamente, formale. La Cassazione osserva che un ricorso deve essere notificato all’avvocato che ha rappresentato la controparte nella procedura in cui la sentenza impugnata è stata emessa. Nel caso in questione, la società ricorrente aveva notificato il suo ricorso all’avvocato che aveva rappresentato il curatore nel primo grado. Ma nel secondo grado il curatore era contumace e non era certo assistito da alcun avvocato. Ai sensi della giurisprudenza però un simile errore di procedura rende tutti gli step successivi inesistenti. Insomma, una beffa. Seppur a norma di legge. Così dopo ben 10 anni la Srl si vede riconoscere da Strasburgo una ragione di fondo: un processo così lungo non ha in alcun caso giustificazioni. Anche se la vittoria gli vale solo 3mila euro di risarcimento. Qualcosa più del valore simbolico. È andata meglio a due aziende (caso Luardo e Bottaro contro Italia) che si sono rivolte a Strasburgo per denunciare due procedimenti fallimentari durati rispettivamente quattordici e dodici anni. A loro l’indennizzo è valso 31mila e 27mila euro.

«La durata media delle procedure fallimentari prima della riforma aveva mostrato negli ultimi decenni una tendenza crescente, raggiungendo i 9 anni nel 2008», scriveva Bankitalia in un paper dell’aprile del 2012. I costi assorbivano oltre il 20% dell’attivo disponibile. Le perdite per i creditori erano consistenti: i creditori privilegiati recuperavano il 26% dei loro crediti, quelli chirografari circa il 7%. Le procedure italiane risultavano inefficienti anche nel confronto internazionale.

Procedure un po’ più semplici e concordato preventivo, insomma, per indurre una più tempestiva emersione della crisi dell’impresa allo scopo di migliorarne le possibilità di ristrutturazione. In questo modo il legislatore ha pensato bene di rendere più efficaci i meccanismi di uscita dal mercato, ma ha lasciato intonsi i due nodi più delicati del sistema. Il cattivo funzionamento della giustizia civile e la mancata riforma della disciplina dei reati fallimentari. Il che ha reso tronca la riforma. E i tempi delle procedure fallimentari dal 2008 a oggi sono migliorati di poco più di sei mesi.

Non certo un successo. Se si pensa che i tempi medi per un fallimento in Europa stanno sotto i tre anni. Mentre i giudici italiani sono convinti che sette anni sarebbero un successo. Nel 2010 una piccola azienda aveva chiesto l’indennizzo in base alla legge Pinto (ragionevole durata di un processo) dopo anni di attesa. I giudici di secondo grado bocciano la richiesta, la Cassazione la accoglie ma, ahinoi, mette nero su bianco che 11 anni sono troppi, mentre fino a sette è tutto ok. Una sentenza che la dice lunga su quanto le migliaia di pendenze davanti a Strasburgo non riusciranno a cambiare una cultura. Quella che «il tempo non è mai una priorità». 

X