Opportune et importuneDa Lampedusa a Rio, la Chiesa guarda al Sud del mondo

La geografia spirituale di Bergoglio

Da Lampedusa a Varginha, una delle favelas più malfamate di Rio de Janeiro che il Papa visiterà giovedì prossimo nell’ambito della Giornata mondiale della gioventù, i primi due viaggi del pontificato di Francesco disegnano una “geografia” spirituale ben precisa e l’idea stessa di Chiesa che ha in mente il Pontefice «preso alla fine del mondo». Una Chiesa non più eurocentrica ma che ha messo in cima all’agenda i problemi dell’emisfero Sud dove vivono oltre due terzi dei cattolici di tutto il mondo.

Lo spicchio di mare di Lampedusa divenuta tomba per migliaia di uomini e l’estrema povertà della piccola favela brasiliana non costituiscono per il Papa solo luoghi dove gridare e denunciare le ingiustizie del mondo ma l’occasione per accogliere, abbracciare, accarezzare la carne di quei poveri senza nome e senza volto che lì abitano o sono morti.

La dimostrazione evidente si è avuta proprio a Lampedusa. Chi si aspettava dal Papa analisi politiche sul fenomeno dell’immigrazione è rimasto probabilmente deluso.
Il Pontefice, peraltro, ha sì denunciato i trafficanti di uomini («persone per le quali la povertà degli altri è una fonte di guadagno», ha detto) e «coloro che con le loro decisioni a livello mondiale hanno creato situazioni che conducono a questi drammi» ma è andato sull’Isola per farsi prossimo, evangelicamente, a tutti gli sventurati di qualunque razza, religione o cultura che nella traversata nel Mediterraneo cercavano una nuova speranza e hanno trovato la morte.

Il Papa, obietta qualcuno, fa il Papa, è normale in fondo che dica e faccia queste cose. Chi crede, invece, sa che il Papa non fa solo il Papa, non è un burocrate della fede, un riformatore o un coordinatore di strutture e di uomini ma è chiamato qui in terra, nelle contraddizioni del tempo e con tutti i propri limiti, a rendere concretamente visibile nella sua persona Cristo stesso in una catena che fino alla fine della storia dovrà testimoniare dell’autorità e della verità del Vangelo. E testimoniare significa anche abbracciare quei popoli, come i lampedusani o come i pugliesi che negli anni Novanta accolsero migliaia di albanesi in fuga dal loro Paese, che con la loro opera hanno reso e continuano a rendere attuali le parole di Gesù: «Avevo fame e mi avete dato da mangiare, avevo sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, in carcere e siete venuti a trovarmi» (Mt, 25). Per questo, come primo viaggio ufficiale del pontificato, papa Francesco ha scelto Lampedusa, l’approdo simbolo dei migranti, lo scoglio su cui sbattono e muoiono migliaia di uomini, donne e bambini in fuga dagli Erode di turno, resi schiavi e sfruttati da uno spietato sistema economico globale sempre più adoratore dei profitti, affamatore dei poveri e devastatore della fede.

Un Papa non può limitarsi alla denuncia ma deve anzitutto farsi prossimo ai poveri, ai sofferenti, a chi muore solo e senza dignità. Deve scuotere le coscienze, pregare e invitare gli altri a farlo e soprattutto portare al mondo la “carezza di Dio”, non di un Dio generico ma di quel Dio che in Cristo ha voluto incarnarsi e farsi uomo tra gli uomini.

L’omelia di Francesco a Lampedusa è stata, da un lato, un’enciclica sulla teologia del dolore e, dall’altro, un monito all’uomo che quando vuole farsi Dio, anche se paradossalmente si proclama ateo, si smarrisce e distrugge anche l’altro, il prossimo, il fratello percepito solo come un nemico. Sul dolore il Papa, in una delle omelie più dure e sferzanti di questo inizio pontificato, ha echeggiato il grido biblico del profeta Isaia: «Chi si affligge per la sua sorte?». E davvero profetico è stato il grido di Francesco dalla Porta d’Europa di Lampedusa: «Chi di noi ha pianto per questo fatto e per fatti come questo?», ha chiesto durante la messa, «Chi ha pianto per la morte di questi fratelli e sorelle? Chi ha pianto per queste persone che erano sulla barca? Per le giovani mamme che portavano i loro bambini? Per questi uomini che desideravano qualcosa per sostenere le proprie famiglie? Siamo una società che ha dimenticato l’esperienza del piangere, del “patire con”: la globalizzazione dell’indifferenza ci ha tolto la capacità di piangere!». Non un proclama politico, il suo, ma un grido profetico per ricordare al mondo che coloro che sono sepolti nel mare sono uomini come noi, «carne di Cristo», fratelli in umanità. 

Poi ha citato l’Innominato di Alessandro Manzoni, il malvagio che prima di convertirsi e piangere fa l’ipocrita con se stesso e i suoi crimini: «La cultura del benessere, che ci porta a pensare a noi stessi, ci rende insensibili alle grida degli altri, ci fa vivere in bolle di sapone, che sono belle, ma non sono nulla, sono l’illusione del futile, del provvisorio, che porta all’indifferenza verso gli altri, anzi porta alla globalizzazione dell’indifferenza», ha affermato. «In questo mondo della globalizzazione siamo caduti nella globalizzazione dell’indifferenza. Ci siamo abituati alla sofferenza dell’altro, non ci riguarda, non ci interessa, non è affare nostro! Ritorna la figura dell’Innominato di Manzoni. La globalizzazione dell’indifferenza ci rende tutti “innominati”, responsabili senza nome e senza volto». Poi la richiesta di perdono e l’invocazione accorata a Dio perché doni all’uomo un cuore di carne: «Domandiamo al Signore che cancelli ciò che di Erode è rimasto anche nel nostro cuore; domandiamo al Signore la grazia di piangere sulla nostra indifferenza, di piangere sulla crudeltà che c’è nel mondo, in noi».

Nell’omelia il Papa ha riflettuto sulla domanda posta da Dio al primo uomo dopo il peccato: «Adamo, dove sei?» e sulla domanda che Dio rivolge a Caino: «Dov’è tuo fratello?». «Adamo», ha spiegato Francesco, «è un uomo disorientato che ha perso il suo posto nella creazione perché crede di diventare potente, di poter dominare tutto, di essere Dio».

Se l’uomo vuole farsi Dio distrugge anzitutto se stesso, tradisce l’ordine della Creazione e nell’altro vede solo un ostacolo da aggirare o un nemico da abbattere. «L’armonia si rompe», avverte il Papa, «l’uomo sbaglia e questo si ripete anche nella relazione con l’altro che non è più il fratello da amare, ma semplicemente l’altro che disturba la mia vita, il mio benessere. Il sogno di essere potente, di essere grande come Dio, anzi di essere Dio, porta ad una catena di sbagli che è catena di morte, porta a versare il sangue del fratello!». L’uomo che non si riconosce creatura e non riconosce un’origine, una dipendenza, un limite si fa Dio. Come suggerisce il diavolo a Ivan, il protagonista dei Fratelli Karamazov di Dostoevskij, spingendolo ad uccidere il padre: «La coscienza? Che cos’è la coscienza? Sono io stesso che me la invento. Perché mai mi tortura? Per un’abitudine. Per un’universale abitudine del genere umano, vecchia di settemila anni. Liberiamocene, e saremo degli dei!».

La pretesa o il delirio di metterci al posto di Dio alla fine, avverte il Papa, ci fa deragliare e ci disorienta, ci porta a distruggere tutto e a considerare il fratello essenzialmente un oggetto, da fabbricare in laboratorio, magari, o sfruttare in nome del business. «Non siamo più attenti al mondo in cui viviamo, non curiamo, non custodiamo quello che Dio ha creato per tutti e non siamo più capaci neppure di custodirci gli uni gli altri», ha detto il Papa, «e quando questo disorientamento assume le dimensioni del mondo, si giunge a tragedie come quella a cui abbiamo assistito». Uno spicchio di Mediterraneo diventato tomba per oltre 20 mila uomini in una serie di stragi silenziose che per il Pontefice sono diventate «una spina nel cuore». A Lampedusa Francesco ha accarezzato come un padre e gridato come un profeta. Nel Brasile piagato da milioni di poveri farà altrettanto.

X