Dieci anni fa, la Norvegia ha approvato una legge che prevedeva un’equa rappresentanza di genere nei consigli di amministrazione delle imprese quotate alla Borsa di Oslo. Forse inconsapevolmente, i parlamentari norvegesi hanno avviato uno dei dibattiti più accesi nel mondo aziendale e della politica. Da allora, infatti, in molti paesi si è discusso dell’opportunità di incrementare il numero di donne nei Cda attraverso l’imposizione di quote. Il tema è scivoloso, tutti hanno un’opinione, e le risposte sono spesso ideologiche piuttosto che basate su un ragionamento rigoroso o sull’evidenza.
La legge approvata nel 2003 dalla Norvegia puntava a incrementare il peso delle donne negli organi decisionali da un risibile 9% al 40% dei seggi. Tuttavia, alla prima verifica (luglio 2005) pochissime aziende avevano seguito la raccomandazione; di conseguenza il Parlamento rese obbligatorio l’adeguamento pena lo scioglimento della società Dal 2008 tutte le imprese norvegesi quotate hanno almeno il 40% di donne nel Cda. L’esempio norvegese ha avuto un effetto contagio: nel 2007 in Spagna è stata approvata una legge identica, in Francia dal 2017 ci sarà lo stesso obbligo per le imprese quotate. In Germania e Olanda se ne discute, e il Commissario Europeo alla Giustizia Vivienne Reading auspica un incremento delle donne nel Cda al 30% entro il 2015; solo negli Stati Uniti la regola è stata finora ignorata.
E in Italia? La legge n.120 del luglio 2011, prevede che i Cda delle aziende quotate o a partecipazione pubblica, al primo rinnovo del mandato degli organi, debbano essere composti per un quinto da donne; dal secondo e dal terzo rinnovo del mandato la quota rosa dovrà salire a un terzo.
La peculiarità del caso italiano è la temporaneità dell’intervento: infatti l’obbligo per le imprese decade al termine del terzo mandato (presumibilmente nel 2021). Questo elemento è stato introdotto, al fine di creare uno shock e favorire un ricambio ai vertici, occupati quasi esclusivamente da uomini. L’auspicio è che alla “scadenza” della legge le imprese tenderanno autonomamente a garantire un’equa rappresentanza di genere nel Cda. Dall’introduzione della legge (Agosto 2012), si registra un aumento delle donne nei Cda, e non è difficile immaginare che le soglie stabilite saranno raggiunte nei prossimi anni.
In realtà nonostante un’attenzione decennale al tema, le donne riscontrano ancora enormi resistenze all’accesso nelle stanze dei bottoni. Su scala globale nel 66,6% delle imprese quotate c’è almeno un consigliere donna, ma in meno del 15% dei casi ce ne sono 3 o più. Nel complesso le donne occupano appena il 11,8% dei posti nei Cda; la situazione peggiora se si guarda ai ruoli ricoperti dalle donne: il 2,3% sono Presidenti del Cda e meno del 4% sono Amministratore Delegato.
Vista questa evidente stortura, è auspicabile l’intervento di Parlamenti e Regolatori per correggerla? L’evidenza empirica ci aiuta solo in parte: la maggioranza degli studi, volti a stabilire se la presenza di donne nel Cda influisce sulla performance aziendale, non offre risposte univoche.
Un recente studio di Ahern e Dittmar mostra che gli investitori norvegesi hanno avuto una reazione negativa alla legge del 2003; i titoli delle imprese maggiormente colpite persero in media il 3,5%; negli anni successivi le imprese hanno subito un declino della performance del 12,4%. Di tutt’altro tenore invece i risultati di Adams e Ferreira sulle imprese statunitensi quotate – non soggette a regolamentazione – in cui viceversa la presenza di donne nel Cda migliora sensibilmente la redditività delle aziende.
Qual è la verità? Incrementare la rappresentanza delle donne nelle posizioni decisionali aiuta le imprese o le penalizza? Una risposta univoca manca, probabilmente perché non abbiamo risposte ad alcune domande chiave: qual è il contributo delle donne nel Cda? Cosa apportano al board rispetto ai colleghi uomini? Insomma, perché una variazione nella composizione del Cda basata sul genere dei consiglieri dovrebbe incidere sulla performance aziendale?
Una serie di aspetti andrebbero presi in considerazione prima di giudicare l’efficacia di un eventuale intervento. Innanzitutto l’approccio prevalente tende a considerare solo il problema dell’inefficienza delle imprese nella selezione dei consiglieri, e gli effetti sulla performance, ignorando le questioni di equità. Inoltre, l’evidenza empirica mostra che nei paesi in cui c’è stato uno shock legislativo, le imprese hanno accettato la regola malvolentieri, e anche gli investitori hanno reagito negativamente. I board hanno cambiato rapidamente e sostanzialmente la loro composizione per fare spazio ai nuovi consiglieri, con una riduzione dell’età media e dell’esperienza nei Cda. Quest’ultimo fattore spiega perché si ha la percezione di una minore efficacia dei Cda negli anni immediatamente successivi alla modifica legislativa.
Infine, la maggior parte delle imprese ha una sola donna nel Cda, di conseguenza le consigliere sono spesso isolate. Questi approcci più simbolici che sostanziali non facilitano il raggiungimento di una massa critica (almeno 3 consiglieri) in grado di pesare in consiglio. Fra l’altro, si sa ancora pochissimo di come le donne contribuiscano al dibattito nei Cda a causa della difficoltà per i ricercatori ad accedere nella stanza dei bottoni; le primissime evidenze empiriche derivanti da video-osservazioni di nove sedute consiliari di tre Cda di aziende australiane mostrano che le donne tendono a contribuire molto meno al dibattito in consiglio, intervenendo meno e parlando per un tempo più breve rispetto agli uomini.
Alla luce di questi risultati contrastanti, perché auspicare una maggiore rappresentanza femminile? Fintanto che non si dimostri che c’è un motivo in termini di dinamiche e efficacia del CdA per prediligere gli uomini alle donne, almeno due ragioni giustificano un intervento normativo: smontare la ragnatela di connessioni tra consiglieri (uomini) e ovviare a una chiara stortura nella società. Il timore è che il processo possa andare a rilento senza la collaborazione delle imprese che dovrebbero aprire ai posti di comando.
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