Gli Usa spiano gli “alleati”? Gli altri ricambiano

Nell’intelligence è tutti contro tutti

I toni dello scontro tra Europa e Stati Uniti restano alti dopo gli ultimi sviluppi del «Datagate».  Alle minacce del commissario europeo Viviane Reading segue ora la richiesta francese di sospendere «almeno per 15 giorni» le trattative sull’accordo per la creazione di un’area di libero scambio Usa-Ue. Ma dietro le reazioni piccate, ad uso e consumo delle opinioni pubbliche giustamente scandalizzate, la maggioranza degli esperti di intelligence non vede il rischio di reali conseguenze ed è abbastanza comune la convinzione che lo spionaggio tra alleati sia sempre esistito.

Anzi, proprio per rintuzzare i continui attacchi da parte di politici e media stranieri, la Casa Bianca ha scelto la strategia di non negare lo scandalo ma di sostenere che si tratti di una prassi comune a molti Paesi. Nei confronti della Francia, in particolare, diversi analisti fanno notare come sia ipocrita l’atteggiamento scandalizzato da parte di una nazione che ha storicamente sempre fatto spionaggio economico a danno dei propri partner. «In economia siamo competitori, non alleati» dichiarò una volta Pierre Marion, ex direttore dell’agenzia di spionaggio francese. «L’America ha le informazioni tecnologiche della maggior rilevanza. È naturale che riceva le maggiori attenzioni da parte dei servizi di intelligence».

Secondo i report americani, negli anni ’80 e ’90 Parigi faceva attività di intelligence nei confronti di grosse società di tecnologia – tra cui anche l’Ibm – per colmare il gap della propria industria del settore. E ancora oggi, stando a recenti rapporti del controspionaggio a stelle e strice, la Francia compie attività di cyberspionaggio a danno degli Stati Uniti. Molto meno della Cina, che è prima di stacco in questa particolare classifica, me non troppo distante da Russia e Israele, altri Stati su cui si concentrano le preoccupazioni americane.

Prima di parlare di Israele – che ha una lunga tradizione di spionaggio a danno dei propri alleati, in particolare americani – va sottolineato come non siano solo gli Usa il bersaglio dei loro stessi alleati (che, come sappiamo dalle rivelazioni di Snowden, vengono comunque abbondantemente surclassati nella gara a chi spia di più), ma anche altri Stati. Il Regno Unito ad esempio, in base a un documento segreto diffuso dai media nazionali nel 2009, risulta essere un «bersaglio di alta priorità per lo spionaggio» per circa 20 Paesi, tra cui anche alcuni alleati europei come la Francia e la Germania.

Nel rapporto si mette in guardia dal considerare l’intelligence come un’attività legata solo al terrorismo islamico. Nella maggior parte dei casi è volta a «raccogliere materiali e informazioni per consentire il progresso dei loro programmi militari, tecnologici, politici ed economici». Patrick Mercer, presidente della sottocommissione antiterrorismo, dichiarò che il documento doveva servire all’Inghilterra come monito, che la minaccia dello spionaggio «da Guerra Fredda» non è svanita. «L’Inghilterra – spiegava Mercer – è all’avanguardia in diverse tecnologie avanzate ed esse sono estremamente attraenti per numerosi altri Stati, alcuni dei quali sono a dire il vero nostri alleati».

Nello scandalo del “Datagate” l’Inghilterra si trova dall’altro lato della barricata, accusata insieme agli Stati Uniti di condurre un vasto spionaggio a danno degli alleati europei e non solo. Il Regno Unito è uno dei cinque Stati facenti parti del gruppo chiamato «Five Eyes» («cinque occhi») insieme ad America, Canada, Nuova Zelanda e Australia. In base all’accordo che istituì questo «club» di Paesi anglosassoni – risalente al 1946 – i membri sono tenuti a scambiarsi informazioni di intelligence e a collaborare strettamente. Nei documenti rivelati da Snowden questi Stati sono considerati di «seconda fascia», e pertanto meno coinvolti dalle intercettazioni della Nsa rispetto a quelli di «terza fascia», come Francia, Germania o Italia.

Ma, come si diceva, il Paese occidentale che ha una biografia più ricca di attività di intelligence ai danni dei propri alleati è sicuramente Israele. Il caso più famoso è quello di Jonathan Jay Pollard, un (ex) cittadino americano che passò informazioni classificate ai servizi israeliani mentre lavorava come analista per la marina statunitense. Dopo essere stato scoperto nel 1987 fu condannato all’ergastolo, anche se adesso sembra che potrebbe uscire nel 2015. La sua cattura sollevò il velo sull’esistenza di Likam, un’agenzia di intelligence israeliana incaricata dello spionaggio tecnologico-industriale che pare sia stata responsabile, già negli anni ’60, del furto a danno dei francesi del progetto del caccia multiruolo Mirage.

Nel corso del tempo l’atteggiamento di Tel Aviv non sembra essere mutato. In base a quanto riportato dall’Associated Press, numerosi ufficiali della sicurezza nazionale americana considerano Israele «un alleato scoraggiante e una genuina minaccia di controspionaggio». Addirittura la «principale minaccia» di controspionaggio in Medio Oriente, più dei Paesi dichiaratamente ostili. Questo non ha impedito e non impedisce una stretta collaborazione tra Cia e Mossad e in generale tra le agenzie di intelligence dei due Paesi. Dietro il recente attacco cyber all’Iran con il virus Stuxnet sembra ad esempio che si celi una collaborazione israelo-americana. Tuttavia scaramucce e colpi bassi continuano. Nel 2005 furono licenziate due ufficiali americane che erano entrate in contatto con i servizi di intelligence israeliana, per il timore che fossero state «reclutate» dalla concorrenza. Nel 2008, nel corso di una classica operazione di «false flag», alcuni operativi del Mossad si finsero agenti Cia per reclutare in Pakistan estremisti sunniti del gruppo Jundallah allo scopo di utilizzarli contro obiettivi iraniani. E per ogni caso che, pur nell’incertezza, emerge ce ne sono a decine che non verranno mai scoperti.

Lo spionaggio tra Paesi «amici» è la normalità, anche se la mole di attività di intelligence messa in campo dagli Stati Uniti è difficilmente raggiungibile dalla maggioranza degli alleati. Questo sia per motivi di effettiva capacità – la spesa americana per la Difesa è di circa 700 miliardi di dollari l’anno – sia di volontà politica, legata direttamente agli interessi strategici del Paese. Le rivelazioni di Snowden hanno gettato luce su un mondo abituato a muoversi nell’ombra e a non dover rendere conto all’opinione pubblica delle proprie azioni. Del caos che ne è seguito provano ad avvantaggiarsi le potenze «ostili», Cina e Russia in primis. Consapevoli che, non appena le acque saranno nuovamente calme, all’insaputa dei comuni cittadini ricomincerà a pieno regime il «grande gioco».

Le newsletter de Linkiesta

X

Un altro formidabile modo di approfondire l’attualità politica, economica, culturale italiana e internazionale.

Iscriviti alle newsletter