Il capitalismo italiano? Una foresta pietrificata. L’industria? In svendita (e per lo più allo straniero). L’economia? In declino. I redditi? Indietro di vent’anni. Il patrimonio? Consumato, come d’inverno il fieno in cascina. È la narrazione mediatica dell’Italia che, batti e ribatti, diventa senso comune. L’ultimo ritratto negativo è uscito sul Times di Londra anche se il suo padrone, Rupert Murdoch, in questa terra desolata che “ha l’appeal di un paese africano”, continua a fare un sacco di quattrini. C’è del vero in quel che scrivono critici e detrattori, nazionali o esteri, ma come ogni luogo comune coglie solo la superficie più sottile. E quando il velo di Maya cade, si scopre ben altro.
Il crollo dei Ligresti non è avvenuto per mano dei magistrati, anzi la “giustizia” in questo caso è arrivata buon’ultima. Il colpo di grazia l’ha inferto la crisi che ha fatto crollare tutti i rami d’affari sui quali l’impero di mister 5% era stato costruito: edilizia, finanza, assicurazioni (come abbiamo già raccontato su Linkiesta). E’ una catastrofe annunciata, resa più grave da una gestione familiare e familistica che mette in luce tutti i limiti del modello italiano. Don Salvatore era un personaggio importante anche se oggi lo si rappresenta ai limiti del grottesco: faceva il lavoro sporco per conto di Enrico Cuccia, lo ha fatto contro Michele Sindona, poi per proteggere Mediobanca dall’attacco democristiano di Giulio Andreotti, Beniamino Andreatta e Romano Prodi (in modo diverso, ma con lo stesso scopo), e ancora per custodire pacchetti essenziali nel controllo di aziende strategiche. Il sistema Mediobanca non esiste più senza Ligresti che Mediobanca ha salvato tre volte. E non esiste più nemmeno il centro di gravità del capitalismo italiano.
In pochi paesi sono caduti tanti idoli e tanti poteri forti. Certo non è successo in Germania dove comandano i soliti noti: il complesso bancario-industriale (Deutsche Bank-Daimler), Allianz, i Krupp, i Quandt, Siemens, Bayern, Porsche, nomi che troviamo prima della guerra, alcuni di loro fin dai tempi di Bismarck. Certo, non accade in Francia: tranne qualche eccezione, le istituzioni finanziarie e industriali forgiate dal sistema di potere gaullista sono rimaste i punti di riferimento anche per la gauche. La Gran Bretagna, scossa dal ciclone Thatcher, è tornata al suo tran tran di succursale americana, con più banchieri e meno industriali. In Italia, invece, chi era al comando vent’anni fa è ormai ben oltre il viale del tramonto.
In un saggio uscito sullo European Planning Studies, Fulvio Coltorti, utilizzando il suo pluridecennale punto d’osservazione all’ufficio studi Mediobanca, ha pubblicato uno schema eloquente dei gruppi privati italiani con oltre diecimila dipendenti (quindi i grandi per i nostri standard dal 1973 al 2009. In testa resta sempre la Fiat, ma la numero due, la Montedison, non c’è più. Pirelli, al terzo posto, s’è dimezzata. La numero quattro, la Olivetti, è un ricordo da museo. Gli anni ’80 vedono l’irrompere di nuovi soggetti (De Benedetti, Berlusconi, Benetton, per esempio), ma i cambiamenti più radicali avvengono negli anni ’90.
Fonte: Mediobanca
Da allora scompaiono nomi che hanno fatto la storia del capitalismo: Snia, Falck, Bastogi, Ferruzzi, tanto per citare alcuni dei più rilevanti, a parte Montedison e Olivetti. Entrano in un cono d’ombra anche i protagonisti del miracolo economico, pensiamo a Lucchini e Orlando, altri si ridimensionano (i Marzotto lacerati da una faida dinastica) o cambiano pelle. La famiglia Benetton è stata protagonista di una trasformazione di successo dall’industria dell’abbigliamento ai servizi e alle concessioni pubbliche. Gli ultimi due condottieri degli anni ’80 fanno politica, direttamente come Silvio Berlusconi o indirettamente come Carlo De Benedetti che guida il più politico dei gruppi editoriali, l’Espresso-Repubblica.
Nello stesso tempo, balzano nelle zone alte della classifica i Ferrero, Del Vecchio, Della Valle, Armani, Prada, Ferragamo, Barilla, Menarini, Riva (la cui sorte adesso è legata alla catastrofe ecologica dell’Ilva di Taranto). Dunque, non si può dire che non ci sia stato cambiamento. Coltorti prende l’andamento del valore aggiunto dal 1999 al 2007, cioè proprio gli anni nei quali, secondo i dati macroeconomici e le indagini della Banca d’Italia l’economia italiana si ferma e la produttività arretra. Ebbene il valore aggiunto dell’agricoltura si è ridotto, ma quello dell’industria è aumentato (con e senza le costruzioni) attorno al 10%. L’incremento maggiore naturalmente è nel terziario che però oggi sempre più connesso all’industria, tanto da far cadere la rilevanza delle vecchie categorie statistiche.
Una metamorfosi, insomma, anche se una metamorfosi incompiuta. Scomparsa la grande industria pubblica, anche la grande industria privata si è ritirata. Sono emersi nuovi protagonisti prima nei distretti poi nel Quarto capitalismo. Non è vero neppure che le imprese italiane non si siano internazionalizzate (tra l’altro i dipendenti all’estero sono aumentati anche per effetto della delocalizzazione). Le multinazionali ci sono, ma se si esclude la Fiat, l’Italcementi mezza francese e la Indesit (Merloni) mezza inglese, sono multinazionali tascabili.
Un colpo duro al vecchio establishment l’ha dato Tangentopoli. Il 1993 è un anno di svolta: le incriminazioni arrivano persino nel sancta sanctorum del capitalismo. E’ vero. E tuttavia, anche questo è un luogo comune. La magistratura prende la ramazza, ma i cocci sono già in terra, i colossi dai piedi d’argilla cadono in frantumi con la fine del protezionismo. Quello stesso 1993, infatti, è l’anno in cui viene introdotto in Europa il mercato unico e finisce ogni quota e ogni barriera. È l’anno in cui prende vita l’area di libero scambio in Nord America, e gli Stati Uniti danno il calcio d’inizio alla nuova globalizzazione.
Anche in Italia si fa presto a capire che la simbiosi tra capitalismo privato e spesa pubblica non regge, quel modello che Giuliano Amato aveva chiamato “protezionismo liberale”, è andato. Le privatizzazioni e lo smantellamento dell’Iri rispondono a questa consapevolezza, non solo al bisogno di fare cassa per ridurre il debito pubblico. Eventi naturali, come la morte di Cuccia e la scomparsa degli Agnelli, fanno cadere del tutto il perno di un sistema che si era già scollato.
Qualcun altro prova a occupare il centro e costruire un nuovo motore immobile. Per esempio Antonio Fazio, governatore della Banca d’Italia, ma il suo aristotelismo economico viene travolto dalle scalate dei furbetti nel 2005, considerate pericolose soprattutto quando parte l’assalto al Corriere della Sera. Ci prova anche Cesare Geronzi, attaccando Mediobanca guidata da Vincenzo Maranghi, insieme ad Alessandro Profumo, e poi vendendo Capitalia allo stesso Profumo, per avere in cambio proprio la presidenza di Mediobanca. Da piazzetta Cuccia, Geronzi si sposta alle Assicurazioni Generali perché ritiene che la compagnia dell’impero asburgico (ricca e ancora potente) possa diventare il nuovo punto di aggregazione. Ma anche lui viene sconfitto. La sua uscita di scena, favorita da due degli imprenditori che hanno resistito alla crisi, Leonardo Del Vecchio e Diego Della Valle, segna il tramonto di ogni altra operazione sistemica.
Certo, resta Giovanni Bazoli, banchiere di sistema come pochi altri (per lo meno del sistema che ha ruotato per oltre mezzo secolo attorno alla finanza cattolica lombarda), ma ormai la sua sfera d’influenza si è ridotta al Corriere della Sera. C’è Giuseppe Guzzetti un ex dirigente politico della Dc che, diventato banchiere, ha manovrato con grande acutezza e visione strategica. Anche lui, però è chiuso in un recinto, quello delle “sue” fondazioni logorate dalla crisi, quindi gia’ difficili da presidiare.
Tante ricchezze, nel frattempo, si sono disperse. Parmalat e Cirio travolte dagli scandali. O si pensi a don Verzè negli ospedali, uno dei business più lucrosi grazie alla regionalizzazione del sistema sanitario. La morte precoce di Giuseppe Rotelli, che aveva acquisito il gruppo San Raffaele creato da quel prete quanto meno bizzarro, getta incertezze sul futuro. Questo nuovo capitalismo dei servizi andrebbe seguito con maggiore attenzione, vittime come siamo della manifattura vecchio stile.
Il Leone di Trieste, sole splendente della “galassia del nord”, con Mario Greco, amministratore generale dai pieni poteri, torna a fare il mestiere di assicuratore. Un gran mestiere, la compagnia è tra le prime tre in Europa con Axa e Allianz, ma non può più essere trasformata in una sorta di super holding del capitalismo italiano. È un bene che non ci sia nessun centro? Ogni vero liberista ne è convinto. La realtà deve tendere verso il modello di un mercato diffuso e simmetrico, l’idea che ruoti attorno a un punto di riferimento in qualche modo mediano, rappresenta di per se’ una bestemmia. Stato minimo, mercato massimo: quanto di più vicino a un’anarchia regolata dai comportamenti razionali dei soggetti.
È il mercato teorico, quello storico è dominato da chi ha saputo proteggere i propri privilegi grazie al ricorso ad asimmetrie plurime, informative, plutocratiche, politiche. Assomiglia più allo stato di guerra di Thomas Hobbes che all’insocievole socievolezza di Immanuel Kant variante psico-filosofica della mano invisibile di Adam Smith. Dunque, non è affatto improprio chiedersi se davvero sia positiva questa anarchia asistemica, una volta appurato con soddisfazione che il vecchio sistema non esiste più.
Chi potrebbe essere oggi il soggetto di una aggregazione su basi nuove? John Elkann? È questo il senso della battaglia per conquistare il vecchio giornale della borghesia, il Corriere della Sera? È questa la sfida, sia pur avventurista, lanciata da Della Valle? Domande senza risposta. Alcuni ritengono che la nuova passione editoriale dell’erede Agnelli sia uno sfizio da riccone in cerca di una nuova dimensione dopo aver piazzato in America la Fiat. Altri che, secondo le peggiori tradizioni, voglia usare il Corriere per mantenere una influenza politica in Italia. Una terza scuola di pensiero è convinta che voglia creare per la prima volta un gruppo editoriale moderno e non provinciale (se non internazionale), progetto che non è mai riuscito a nessuno. Vedremo. In ogni caso tutti considerano improbabile che Elkann faccia la parte dell’Avvocato: è una questione di personalità, ma soprattutto di storia. La Fiat resta la numero uno, tuttavia nessuno la ritiene più la regina del capitalismo italiano.
Dove cercare, allora, i nuovi puntelli del sistema, nel quarto capitalismo? Guido Barilla si agita contro il vecchio andazzo consociativo della Confindustria, ma non rompe. Del Vecchio si è fatto addirittura incantare dal grillismo. I giovani Ferrero stanno all’estero. I big della moda non aspirano a giocare un ruolo pubblico, né a fare sistema, sono anche loro individualisti che chiedono ad altri un sistema al quale appoggiarsi per evitare di seguire le orme di Loro Piana.
E i banchieri? La nuova generazione cerca di fare il proprio mestiere. Come Greco alle Generali. Giusto. Se ciascuno facesse al meglio quel che sa fare, le cose funzionerebbero nel modo dovuto. Ma intanto incombe il credit crunch e le banche italiane, che non sono state salvate dallo stato, non hanno nessuno che possa rafforzare la loro gracile struttura patrimoniale. Altro che mestiere. Le imprese pubbliche definite campioni nazionali, in realtà servono per tamponare il fabbisogno del Tesoro. La Cassa depositi e prestiti, anche se è più ricca della vecchia Iri, non ha la stessa strategia, è più una sorta di fondo sovrano che può diventare importante a scopo difensivo, ma al quale manca per forza di cose una strategia costruttiva.
Nessuno vuole il ritorno alla programmazione che, del resto, non ha mai funzionato né in Italia né altrove. I realisti vedono nel Modell Deutschland il punto di riferimento. Gli idealisti guardano all’America, ma si accontenterebbero dell’Inghilterra. I nostalgici ricordano che l’Italia ha seguito un suo modello con tante pecche ma anche tanti punti di forza. Si possono eliminare le prime e ripristinare gli ultimi? Un paradigma di riferimento ci vuole, la distruzione deve essere anche creatrice dicevano Henri Bergson e Joseph A. Schumpeter. Dell’anarchia odierna, caciarona, costosa, tendenzialmente pericolosa, non se ne può davvero più.
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