Le misure di sicurezza messe a punto il giorno del derby Roma-Lazio valido per la finale di Coppa Italia il 27 maggio scorso disegnavano i contorni di una Capitale blindata e sotto assedio, imprigionata dalla paura delle frange violente e oltranziste degli ultras delle due squadre. Troppe volte responsabili di aggressioni, incidenti e saccheggi a danno delle forze dell’ordine e dei supporter di team rivali. Tuttavia il clima di alta tensione che ha accompagnato l’ultimo atto della competizione sportiva non si è riflesso in forma adeguata nelle aule di giustizia, come rivelano due processi che nell’arco di una settimana hanno vissuto una pagina fondamentale nel Tribunale di Roma. A partire da quello più ricco di implicazioni politico-ideologiche, giunto al verdetto della Corte d’Appello.
Le indagini avevano trovato origine nella tragica giornata dell’11 novembre 2007, quando la Città Eterna venne sconvolta da scontri, violenze, assalti alle caserme di Polizia e Carabinieri e alla sede del Coni, subito dopo la notizia dell’uccisione del dj e tifoso laziale Gabriele Sandri provocata da un proiettile sparato da un agente della Polizia Stradale mentre il supporter laziale era a bordo di una macchina in un’area di servizio vicino ad Arezzo. Numerosi supporter di entrambe le squadre di calcio romane, frequentatori abituali delle curve dello Stadio Olimpico e legati dalla militanza in gruppi di estrema destra che da anni hanno assunto il controllo delle tifoserie organizzate giallo-rosse e bianco-celesti, scatenarono la loro furia contro i luoghi simbolo delle autorità.
A giudizio dell’accusa rappresentata all’epoca dai pm Pietro Saviotti e Luca Tescaroli, i drammatici fatti di quella domenica non costituirono però la reazione impulsiva contro un crimine compiuto da un esponente dello Stato nei confronti di un tifoso inerme in trasferta. Bensì il tassello più importante di una lunga catena di aggressioni, intimidazioni, minacce, pianificate e compiute prima e dopo quella data cruciale da una associazione a delinquere composta da venti giovani tra i 22 e i 35 anni cementata dal richiamo all’ideologia neo-fascista. Le cui vittime erano gli immigrati dei campi Rom e i ragazzi dei centri sociali e della sinistra antagonista.
Le spedizioni punitive avevano preso avvio, per gli inquirenti, con l’aggressione nell’estate 2007 agli spettatori che partecipavano a Villa Ada al concerto del gruppo rock “Banda Bassotti”. Quando venti persone a volto coperto e armate di bastone fecero irruzione ferendo due ragazzi. Alcuni giorni più tardi il tentativo di incendiare «per finalità xenofobe nei confronti di cittadini rumeni» una baracca di un campo nomadi, con lo scopo di vendicare la morte di Giovanna Reggiani che aveva suscitato scalpore e indignazione.
Allo scopo di dimostrare come gli incidenti dell’11 novembre rappresentassero il culmine di una strategia accuratamente preparata, i pm avevano presentato una mole enorme di intercettazioni dei ROS. La più clamorosa vedeva alcuni conoscenti di “Gabbo” parlare di una «vendetta per la sua morte in una notte in cui Roma brucerà». Registrazione che a giudizio dei difensori di molti imputati rivelava una naturale concitazione e reazione emotiva e non suffragava la pianificazione di un disegno criminoso. Valutazione respinta dalla Procura, per la quale la catena di violenze era proseguita fino al febbraio 2008 con l’assalto al locale “Sally Brown” nel quartiere di San Lorenzo, tradizionale punto di incontro dell’area antagonista. Un’incursione a viso coperto con spranghe, manganelli e bottiglie di vetro, completata nella logica squadrista con il furto di compact disc, cimeli calcistici e bandiere, strumenti musicali.
Fu l’ultimo atto di un’escalation terminata con la retata delle forze dell’ordine e l’arresto dei venti persone. Verso cui gli inquirenti avevano formalizzato reati che nella cornice dell’associazione a delinquere abbracciavano le lesioni aggravate e la devastazione, la violenza e minaccia a pubblico ufficiale e il saccheggio, la rapina e l’invasione di terreni e edifici. Il 15 dicembre del 2009 i giudici della settima sezione penale del Tribunale avevano accolto l’impianto accusatorio infliggendo a 18 di loro condanne che variavano dai dieci anni e sei mesi ai venti giorni di reclusione, per 104 anni complessivi. Gran parte degli imputati aveva subito la sanzione accessoria dell’interdizione per cinque anni dagli stadi per ogni tipo di manifestazione sportiva, oltre a quella del risarcimento dei danni per le parti lese: Comune di Roma, Atac, Coni, cinquanta agenti e militari feriti, singoli cittadini.
Ma un duro colpo al castello accusatorio è giunto tre anni e mezzo dopo ad opera della prima Corte d’Appello, che ha comminato nove condanne e undici assoluzioni facendo cadere per quasi tutti le imputazioni più gravi: associazione a delinquere e devastazione. La pena più rilevante, 7 anni e quattro mesi di carcere, è stata confermata per Fabrizio Ferrari, mentre 6 anni e un mese di reclusione sono stati inflitti a Alessandro Petrella, Alessio Abballe e Roberto Sabuzi. Tre anni e sei mesi è la sanzione irrogata a carico di Andrea Attilia, Francesco Ceci, Giampiero Celani, Matteo Costacurta; due anni e sei mesi dovranno essere scontati da Gianluca Colasanti.
Meno ricca di implicazioni politiche ma paradigmatica del livello di egemonia e influenza che le tifoserie ultras esercitano sulle manifestazioni calcistiche della Città Eterna è l’altra vicenda processuale, giunta al capitolo finale del primo grado di giudizio. Il collegio della sesta sezione penale del Tribunale era chiamato ad accertare le responsabilità per gli scontri legati all’interruzione del derby di campionato Roma-Lazio la sera del 21 marzo del 2004. Una decisione assunta dal direttore di gara Roberto Rosetti con l’avallo dell’allora presidente della Lega Calcio Adriano Galliani in collegamento telefonico, su pressione dei rappresentanti di entrambe le curve entrati in campo all’inizio della ripresa del match per chiedere alle squadre di rifiutarsi di giocare.
Il motivo? La notizia, propagatasi a macchia d’olio e poi rivelatasi falsa, che un’automobile della Polizia aveva travolto e ucciso un ragazzino mentre erano in corso tafferugli tra tifosi e agenti fuori dello stadio. Colti dal panico e dal timore di provocare una reazione rabbiosa da parte degli spettatori, arbitro e calciatori avevano accolto le richieste insistenti dei tifosi. Mentre prefetto e questore, all’epoca Achille Serra e Nicola Cavaliere entrambi in tribuna quella sera – le uniche autorità che avevano il potere di prendere una decisione vincolante – restarono emarginati dalla decisione venendo esautorati delle loro prerogative.
Fu l’emblema della resa dello Stato alla psicosi collettiva provocata da gruppi di facinorosi, la sconfitta della legalità sopraffatta dalla prepotenza degli ultras. Il nodo da sciogliere in sede giudiziaria, tuttavia, non consisteva nel verificare se la clamorosa interruzione fosse frutto di un progetto criminoso teso ad affermare lo strapotere delle curve attraverso la manipolazione di informazioni diffuse ad arte. Nessuno dei capi-tifosi entrati in campo deve rispondere più di complotto, violenza privata e istigazione a disobbedire alle leggi dello Stato. Tutti hanno potuto tornare allo stadio e le imputazioni residuali – violazione delle norme di sicurezza per il salto acrobatico delle paratie di vetro e procurato allarme – si sono estinte con il pagamento di una multa.
Così sul banco degli imputati sedevano 16 giovani supporter dei team capitolini ai quali venivano contestati gli incidenti con le forze dell’ordine esplosi prima durante e dopo lo stop del derby in luoghi distinti dell’area antistante lo Stadio Olimpico. Capi d’accusa che andavano dalla resistenza aggravata verso pubblici ufficiali attraverso minaccia e violenza all’adunata sediziosa, dal camuffamento del viso al possesso di bastoni e strumenti offensivi, fino alle lesioni personali contro un assistente di Polizia. Ma gli elementi portati in dibattimento per dimostrare il legame tra il comportamento dei giovani e i disordini di quella sera non sono stati ritenuti sufficientemente attendibili dai giudici. I quali hanno riconosciuto colpevoli del reato di resistenza aggravata a pubblico ufficiale cinque imputati: Fabrizio Della Lucilla, Massimiliano Garilli, Ettore Abramo, Simone Sernicoli, Cristian Evangelisti. Condannati a un anno e due mesi, con pena sospesa o condonata. Gli altri giovani sono stati assolti, per prescrizione o per non aver commesso il fatto.
Tra questi ultimi, Alessio Centofanti. Le sue parole possono illuminare meglio di un trattato giuridico e di una relazione parlamentare il livello di imbarbarimento del diritto nel nostro paese: «All’epoca avevo vent’anni. Dopo gli scontri venni fermato e tenuto in stato di arresto a Regina Coeli per sette giorni. Poi subii tre anni di allontanamento coercitivo da ogni manifestazione sportiva. Avevo vinto un concorso alla FAO e un altro alle Poste. Ma a causa del procedimento penale le porte delle istituzioni pubbliche si chiusero. Sono trascorsi nove anni perché la verità venisse riconosciuta e solo adesso posso riprendere la mia vita. Nonostante tutto, nutro fiducia nella giustizia. Ma a quale prezzo?».