E così Matteo Renzi, per la terza o quarta volta, ha “quasi annunciato” a la Repubblica (“Tutti mi chiedono di candidarmi, così cambierò il Pd”), la sua candidatura alla segreteria del Partito Democratico. Ad esser pignoli, dal punto di vista formale ha temporeggiato anche questa volta: «Quando saranno chiare le regole, e soprattutto quando si conoscerà la data del congresso, allora parleremo di cosa fare». Curioso, visto che proprio l’8 luglio Guglielmo Epifani indicava la data del voto per le primarie per il 15 dicembre. E allora perché tutto questo apparente mistero e questa incertezza? La risposta è tutta nella complessità di una partita che si gioca sia dentro che fuori il partito.
Il sindaco di Firenze da mesi rilascia un’intervistona ogni due-tre giorni, sempre sullo stesso tema della leadership, e quando non rilascia l’intervistona del giorno, conquista titoloni sui giornali, con le sue esternazioni cronoprogrammate durante le presentazioni itineranti del libro, Oltre la rottamazione. Ora, a parte il fatto che oltre la rottamazione sembra che continui ad esserci solo e sempre la rottamazione, è evidente che Renzi abbia tirato un sorriso di sollievo — in questo mese di lunghe schermaglie tattiche — solo quando Massimo D’Alema ha detto pubblicamente che il sindaco di Firenze non può candidarsi a segretario del partito, ma che deve aspettare il suo turno accontentandosi della promessa della guida della coalizione.
Diciamo meglio: la condizione di Renzi per potersi candidare era proprio quella di avere contro D’Alema, perché Renzi sa che solo avendo contro D’Alema (è successo sia a lui alle primarie fiorentine che a Vendola, nelle primarie pugliesi) c’è possibilità di vincere per uno che come lui sfida l’apparato. E sa che non deve accontentarsi di una promessa di leadership, perché senza la segreteria del partito nella sue mani il governo Letta può durare fino alla fine della legislatura. Se poi Renzi non diventa segretario, come fa a non ricandidarsi a sindaco di Firenze? Ma se fa di nuovo il sindaco, come puó lasciare? E se non fa il sindaco cosa fa fino al voto? Dietro tutti gli stop and go, dunque, si nasconde questa difficoltà tattica.
Ma c’è un’altra simmetria curiosa in questa strategia apparentemente ondivaga. Nella sua lunga volata verso la leadership Renzi sta ripercorrendo, quasi pedissequamente, il copione seguito un anno fa da Silvio Berlusconi. Anche lui annunciava e smentiva di essere in campo un giorno si e uno no, anche lui faceva tira e molla, anche lui usava Angelino Alfano come un amico-nemico, esattamente come Renzi usa Enrico Letta come un amico-nemico a cui aggiungere o sottrarre quid a a seconda dell’umore. Anche Renzi — come Berlusconi un anno fa — in questi mesi sottolinea di essere arrabbiato, di sentirsi defraudato, di voler correre non tanto per una propria ambizione (figurarsi) ma perché gli elettori e i simpatizzanti glielo chiedono.
Esattamente come per Berlusconi, “l’eletto”, il capo designato dal destino, deve lottare contro i complotti e contro gli intrighi per riconquistare il proprio posto nella storia. Il vittimismo, che un tempo era per tutti la lingua della sconfitta, nella politica italiana è diventato la lingua della battaglia, la via della piena legittimazione: vittimista è Berlusconi, vittimista è Grillo, vittimista e incompreso si sente Monti, vittimista non può che essere Renzi. Certo, è una firma particolare di vittimismo, il vittimismo aggressivo di chi dice al suo popolo, ai suoi elettori, ai suoi fedeli: “mi vogliono cancellare, io sarei tentato di tirarmi indietro, ma per fortuna ci sei tu che mi sostieni”. Il vittimismo storico di Berlusconi (“Non mi fanno lavorare”) e quello più recente di Renzi (“mi vogliono fregare con le regole”) sono figli di questa congiunzione, lo storytelling del leader che da solo traversa il deserto: resta da capire se gli elettori di centrosinistra si faranno sedurre come quelli di centrodestra.
E si vedrà se — esattamente come Berlusconi nelle primarie mai celebrate a destra — Renzi alla fine si ritroverà contro i sette nani che oggi annunciano la propria candidatura, o — con un colpo di scena — un candidato coriaceo come Guglielmo Epifani, la vera carta coperta di Pierluigi Bersani. Perché nel Pd, come dimostra la storia, in venti anni nessuno è riuscito a battere un segretario in carica. Il vero nemico di Renzi, è lui.
Twitter: @LucaTelese