Probabilmente la sua presidenza non durerà solo otto giorni, come accadde a Sufi Abu Taleb, speaker del Parlamento tra il 1978 e il 1983, ma soprattutto capo di Stato ad interim nel breve lasso di tempo (6-14 ottobre 1981) intercorso tra l’assassinio di Sadat e l’inizio dell’era Mubarak. Ma è convinzione diffusa che Adly Mansour verrà ricordato come una figura di passaggio della politica egiziana, il volto presentabile dell’anomalo golpe andato in scena al Cairo, l’uomo che permette ai militari di non esporsi in prima persona e di continuare a tessere trame dietro le quinte.
Eppure, scorrendo la biografia del capo della Corte Costituzionale, divenuto temporaneamente presidente della Repubblica, si scorge un particolare interessante. Il 67enne Mansour, laurea in legge al Cairo, borsa di studio alla parigina Ena, la scuola dell’élite burocratica francese, non ha alle spalle solo una lunga carriera nei tribunali religiosi e nelle corti civili egiziane. Dal 1983 al 1995 ha lavorato in Arabia Saudita, come consigliere legale del Ministero del Commercio. Era, in sostanza, l’uomo di fiducia di Mubarak nel Paese che ha più sofferto per la caduta del raìs. Le ruvide conversazioni telefoniche tra Obama e il re saudita Abdullah, nei giorni della rivolta egiziana, sono già passate alla storia dei retroscena politici.
Non c’è alcun dubbio che l’onda delle primavere arabe abbia destato preoccupazione nel regno dei Saud, che avevano stretto un solido rapporto con i despoti degli altri Paesi sunniti. Il tunisino Ben Ali, primo dittatore a cadere, fuggì proprio in Arabia, a Gedda, dove vive tuttora, assieme alla famigerata moglie Leila, con la spada di Damocle di una condanna a 90 anni in contumacia. Lo stesso Mubarak aveva costruito un asse con i sauditi, in nome della lotta a un comune nemico, l’Iran sciita.
Un movimento che scuoteva lo status quo, poi, non poteva non rappresentare una minaccia per i regimi del Golfo, custodi degli equilibri mediorientali, espressione di un potere gerontocratico, immobile, che non tollera il dissenso e resta in sella soprattutto grazie all’abile gestione della rendita petrolifera. A queste considerazioni bisogna aggiungere un ulteriore elemento: passata la fase avanguardista, dall’impronta laica e nazionale, a godere i frutti della caduta dei regimi è stata l’unica forza politicamente organizzata, la Fratellanza Islamica, quella che il principe Nayaf, nel 2002, aveva definito “la fonte di tutti i guai” per i Saud, un pericoloso concorrente per l’egemonia nel mondo musulmano.
Non occorre scomodare Henry Kissinger, secondo cui in Medio Oriente non era possibile «fare la guerra senza l’Egitto e fare la pace senza la Siria», per comprendere l’importanza strategica del Cairo. La defenestrazione di Morsi è stata accolta quindi con grande sollievo nelle lussuose residenze reali del Golfo. Nella corsa a congratularsi con al Sisi, gli Emirati Arabi Uniti hanno bruciato tutti sul tempo. Il primo telegramma di auguri per l’esercito egiziano, «scudo inossidabile di una nazione sorella», è stato spedito dal ministro degli esteri di Abu Dhabi, lo sceicco Abdullah bin Zayed Al Nahyan, seguito a ruota dal re saudita Abdullah, che in una lettera destinata a Mansour ha voluto ringraziare i militari per avere «guidato l’Egitto fuori da un tunnel, le cui dimensioni e ripercussioni sono conosciute solo da Allah».
L’unico Paese che non ha affatto apprezzato il golpe cairota è il Qatar, che aveva investito, politicamente ma soprattutto economicamente, sui Fratelli Musulmani, anche prima della vittoria presidenziale di Morsi. Doha era convinta che, al di là degli interessi su specifici progetti – vedi alla voce Canale di Suez – un governo amico in Egitto fosse l’asset più sicuro per espandere la propria influenza regionale. Il regno degli al Khalifa, come è noto, è il Paese col reddito pro capite più alto al mondo e, sotto la guida dello sceicco Hamad, ha trasformato la propria rendita energetica nello strumento di una politica estera estremamente attiva, su più tavoli. Dall’accordo di governo libanese del 2008 alla guerra contro Gheddafi del 2011, dalle trattative tra Stati Uniti e talebani ai tentativi di riconciliazione palestinese, non c’è dossier su cui Doha non sia intervenuta con il peso dei propri rial.
Il Qatar si è posto l’ambizioso obiettivo di guidare il cambiamento in atto nel mondo sunnita: ha sostenuto un po’ ovunque – Egitto, Tunisia, Libia – i movimenti islamisti impegnati ad affrontare la sfida elettorale, ha armato l’opposizione siriana, ha contribuito a risollevare le finanze di Hamas.
Gli otto miliardi di dollari versati nelle casse del Cairo, però, non sono stati sufficienti a mantenere in sella Morsi e il giovane emiro, il 33enne Tamim bib Hamad al-Thani– non a caso, l’ultimo ad inviare un messaggio a Mansour – è costretto a fare i conti con un nuovo status quo, a soli dieci giorni dalla sua ascesa al trono. Il Qatar ha fatto del pragmatismo il proprio marchio di fabbrica – ha buoni rapporti, ad esempio, con l’Iran – ma il fallimento egiziano è un duro colpo per l’Islam politico, parte del quale sarà tentato, come preconizza Shadi Hamid sul New York Times, dal rigettare il gioco democratico per abbracciare nuovamente il fondamentalismo qaedista.
L’investimento sui Fratelli, invisi alle altre monarchie del Golfo – proprio qualche giorno fa negli Emirati Arabi sono stati condannati 69 islamisti, con l’accusa di organizzare un colpo di Stato – non si è rivelato redditizio. Adesso Tamim avrà il difficile compito di tutelare gli interessi qatarioti in Egitto dialogando con i nuovi governanti. Del resto, il Cairo dovrà comunque salvarsi dalla bancarotta, per cui è probabile che Doha non esca di scena. Anzi, il duello con l’Arabia Saudita – che alle elezioni legislative egiziane del 2011 aveva appoggiato i salafiti, proprio per sbarrare la strada alla Fratellanza – è destinato a ripresentarsi.
In questa battaglia, condotta su più piani, non poteva mancare lo strumento più classico di propaganda, la tivù. Come la qatariota al Jazeera e la saudita al Arabiya. La prima ha guardato con grande entusiasmo lo scoppio delle primavere, legittimando le aspirazioni delle piazze, ma col passare del tempo si è trasformata nel megafono della Fratellanza, alienandosi molte simpatie nel mondo arabo. Nei giorni delle proteste anti-Morsi era più facile imbattersi nelle immagini della Confederations Cup che in quelle di Tamarrod. Il risultato? Quando i militari hanno preso il potere, non hanno tardato a chiudere gli uffici del Cairo e ad arrestare (per poi rilasciare) alcuni giornalisti. Al Arabiya, dal canto suo, ha seguito con particolare enfasi le rivolte di piazza contro la Fratellanza. Ormai le due reti televisive sono la longa manus dei rispettivi governi e della loro agenda politica, a costo di perdere in autorevolezza e credibilità.