Il modello tedesco: la salvezza nel deserto produttivo

Vitec-Manfrotto, dove osano i sindacati

Prima di entrare nel quartiere generale della Vitec-Manfrotto, un’isola quasi felice, a Bassano del Grappa, circondata da un mare in tempesta, seguo il suggerimento del segretario della Fim-Cisl di Vicenza, Raffaele Consiglio: percorro il quartiere industriale di Thiene. Per vedere tutti i capannoni industriali, una volta considerati emblema dell’Eldorado Piccolo-è-bello, ora semideserti. Che lavorano a ranghi ridotti, o sono addirittura abbandonati.

Strade provinciali lunghe e strette, dove non ci sono più ingorghi, ma sono immersi nel silenzio. Un silenzio produttivo, potremmo definirlo così, che fa brillare ancora di più ogni piccola e grande eccellenza, che resiste alla crisi. O ha aumentato la sue potenzialità. Puntando sulla diversificazione, innovazione tecnologica, contratti aziendali flessibili, in grado di mantenere vivo il sodalizio fra lavoratori e i loro “paròn”, che in Veneto ha sempre rappresentato un fattore determinante per la crescita delle imprese.

È da qui, da quello che fu l’epicentro dell’Eldorado del Nordest, che meglio si può capire fino a che punto si è spinta la notte delle imprese italiane. O, al contrario, per alcuni, dove sta ripartendo il loro risveglio. E infatti è in Veneto, dove più si può cogliere una realtà che non solo è duale, (in estrema sintesi: chi esporta ce la fa, chi è legato solo al mercato interno affonda), bensì frastagliata, frammentata. E travagliata. Nella pancia delle piccole aziende, gli  imprenditori rullano i tamburi di guerra e accusano la casta politica di averli portati sul baratro, senza interrogarsi sui propri errori, cercano alibi esterni e soluzioni estreme (come l’uscita dall’Eurozona), mentre la classe dirigente confindustriale, nonostante le paure e gli assilli della recessione e della mancata politica industriale, ora preme il tasto “risveglio del manifatturiero” per incoraggiare le aziende dinamiche che, nonostante lacci e lacciuoli, aumenta fatturati e conquista nuove fette di mercato. Come sempre, però, la verità è sempre più complessa, sfumata, imponderabile. 

La Vitec-Manfrotto, nata negli anni settanta da un’intuizione di un fotoreporter, Lino Manfrotto, e l’alleanza con Gilberto Battocchio, un tecnico di un’azienda metalmeccanica, per lanciare sul mercato accessori per fotografi professionisti, alla fine degli anni Ottanta è diventata una multinazionale inglese, in cui la proprietà italiana ha mantenuto una piccola quota societaria. Che ha tre divisioni e tre teste: A Bassano del Grappa, a Londra e negli Usa. Qui si costruiscono i treppiedi per macchine fotografiche e telecamere, in Israele due ex militari producono borse professionali, dagli Usa partono i congegni ottici per i droni, e in Turkmenistan è stata addirittura allestita una stazione televisiva: flussi di esportazione e presenza di succursali in 12 paesi, fatturato complessivo di 345 milioni di sterline nel 2012, di cui 157 prodotte in Italia.

Un esempio di un mercato di nicchia di un’azienda leader del manifatturiero italiano, che non ha avuto paura di essere inglobata in una multinazionale perché Lino Manfrotto pensava di non riuscire, da solo, a gestire il mercato globale. E i fatti gli hanno dato ragione. Nonostante un lieve calo della produzione rispetto al 2011, la divisione italiana ha introdotto in questi giorni un contratto aziendale, ora vanto dei sindacalisti della Fim-Cisl, ispirato a quello della Luxottica: orari flessibili per due settimane per l’inserimento nel nido e scuola materna dei figli, e un periodo di aspettativa, non retribuita, di un anno per la maternità, un mese ulteriore addirittura per la procreazione assistita o l’adozione.

E siccome l’amministratore delegato della divisione italiana, Imaging, Marco Pezzana, è un salutista convinto, «In azienda c’è persino un medico nutrizionista» spiega a Linkiesta Adriano Poli, sindacalista della Fim-Cisl alla Manfrotto, mentre il responsabile delle risorse umane, Marco Scippa, mi mostra con orgoglio il codice deontologico contro la corruzione, il numero verde per segnalazioni di qualsiasi anomalia in merito a «pratiche corruttive, illegali e immorali».

Ma la vera novità, dentro questa isola apparentemente felice, è un’altra: il primo passo verso la partecipazione dei lavoratori alle strategie del partner italiano della multinazionale. Certo, l’accordo sindacale prevede anche il carrello della spesa, a Pasqua e a Natale, i corsi in inglese, e le agevolazioni per attività sportive per i dipendenti, ma ciò che è inedito, almeno nel settore metalmeccanico veneto, è la partecipazione dei delegati sindacali a gruppi di lavoro con i dirigenti aziendali su temi aziendali importanti: formazione, allineamento del business, ambiente, sicurezza, benessere;  monitoraggio sulla qualità dei servizi, meritocrazia e discriminazioni.

Anche se l’obiettivo finale della Cisl è quello di arrivare a partecipare (e magari condizionare) il processo decisionale in Italia. Ispirandosi al modello tedesco. Un accordo significativo perché nel mare in tempesta, fra aziende che chiudono o che resistono molto male, si sta modificando il rapporto fra i lavoratori e la proprietà delle aziende. «Da una parte cresciamo, perché siamo chiamati a difendere posti di lavoro, manco fossimo soldati delle Nazioni Unite, anche se quando veniamo chiamati in causa qualche volta è troppo tardi per risanare conflitti ed evitare i fallimenti», spiega ancora Raffaele Consiglio, segretario vicentino della Fim-Cisl. «Il nostro obiettivo, in questa fase delicata dell’economia, è duplice: dove si può, cerchiamo di mantenere il sodalizio fra lavoratori e i proprietari, e contemporaneamente, grazie ad accordi flessibili, tentiamo di aiutare le aziende a fare crescere competitività e produttività, per evitare i licenziamenti».

Così nella stessa provincia vicentina si trovano aziende entrate in crisi irreversibili per non aver saputo gestire la crisi, anche nei settori di mercato ancora sostenibili, all’interno di quella che viene definita da molti analisti un’economia di guerra, e altre che riescono ad evolversi. Coniugando modelli aziendali tradizionali, proprietà familiari con impronta paternalistica, alla flessibilità.  Come è successo alla Salvagnini, che a Sarego produce ed esporta macchine per lavorazione della lamiere- 600 dipendenti in tutta la provincia di Vicenza- che con i sindacati due anni fa ha affrontato la crisi così: contratti di solidarietà, riduzione dei costi dell’’impresa per poi ripartire.

E nel 2011 il patron, Francesco Scarpari, ha potuto uscire dal tunnel, assumere nuovi dipendenti e firmare un accordo sindacale quadriennale, fatto inedito per la Fim-Cisl veneta, che prevede la distribuzione del 12% dei ricavi secondo gli indici Ebit: il risultato operativo. Dentro il mare in tempesta, si naviga a vista, d’accordo. Ma c’è chi cerca un rapido approdo e chi va in mare aperto per scoprire nuovi orizzonti.  

Twitter: @GiudiciCristina  

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