Operazione simpatia. Potrà sembrare irriverente ma il viaggio in Brasile di papa Francesco può essere sintetizzato proprio così. Qualche teologo magari storcerà il naso, i custodi del tempio proveranno imbarazzo ma dopo la Chiesa missionaria, la Chiesa del post concilio, con papa Francesco debutta una nuova “categoria”: la Chiesa gioiosa, la Chiesa simpatica.
Dal pellegrinaggio al santuario della Vergine di Aparecida al ghetto di Varginha, una delle favelas più povere di Rio de Janeiro, fino all’abbraccio con i tossicodipendenti nell’ospedale “São Francisco de Assis” di Rio, quello con i detenuti e alla Via Crucis con i giovani della Gmg, Francesco ha mostrato al mondo il sorriso e la gioia del suo volto, rigato perfino da qualche lacrima, incarnando davvero la Chiesa della gioia, della simpatia umana che contagia e scalda il cuore.
È stato, il viaggio brasiliano di Francesco, una catechesi vivente dell’atteggiamento del cristiano, il quale anche nel dolore di una periferia piagata da fame e violenza, in un ospedale o nell’incontro con chi è stato condannato al carcere, può e deve sorridere, sorretto da una gioia che sa essere più grande e che non gli verrà tolta. La simpatia che ispira Francesco e la sua Chiesa deriva dalla gioia promessa da Cristo ai suoi discepoli: «Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena» (Gv 15,9-11).
Con rigore da gesuita, durante l’omelia ad Aparecida, il Papa in tre punti ha indicato alla Chiesa e ai cristiani la rotta da intraprendere. Il primo: «mantenere la speranza», il secondo: «lasciarsi sorprendere da Dio» e il terzo: «vivere nella gioia». Perché il cristiano dovrebbe essere gioioso? Perché «Gesù», ha risposto il Papa, «ci ha mostrato che il volto di Dio è quello di un Padre che ci ama. Il peccato e la morte sono stati sconfitti. Il cristiano non può essere pessimista! Non ha la faccia di chi sembra trovarsi in un lutto perpetuo. Se siamo davvero innamorati di Cristo e sentiamo quanto ci ama, il nostro cuore si “infiammerà” di una gioia tale che contagerà quanti vivono vicini a noi».
Ecco l’insegnamento di papa Francesco: la gioia è un indice, forse il più importante, della fede di ciascuno. Se scarseggia la prima, anche la seconda è in pericolo o addirittura non c’è. Non a caso Jacques Maritain affermava che una società che perde il senso dell’umorismo si prepara il suo funerale.
Il Papa che sorride, si ferma a bere il mate con i pellegrini, sventola la bandiera della sua Argentina, esorta i giovani a «fare chiasso» per non lasciare la Chiesa a chi vuole ridurla ad una «Ong pietosa», così beneducata, cioè, da diventare invisibile e silenziosa, il Papa che dice di voler prendere un cafezinho con i brasiliani ma non la “cachaça” non è un icona pop alla ricerca dell’applauso ma un pastore con il gusto dell’umanità, che racconta al mondo, vivendolo in prima persona, che anche nelle contraddizioni della vita, nella fatica, persino nel pianto è possibile gioire. Perché, è il messaggio di Francesco, chi gioisce e ispira simpatia è davvero un uomo di fede, un uomo che ha compiuto, come ha detto ai giovani della Gmg, «una rivoluzione copernicana, perché ci toglie dal centro e lo ridona a Dio».
È sorprendente notare come su questo punto, ancora una volta, Francesco si trovi in perfetta sintonia con Benedetto XVI al quale ha affidato, nella preghiera, questo viaggio e la Gmg. «La gioia profonda del cuore è anche il vero presupposto dello “humour”», ha scritto Ratzinger, «e così lo “humour”, sotto un certo aspetto, è un indice, un barometro della fede».
Per il Papa emerito gioia e umorismo vanno di pari passo, come spiega a conclusione del suo saggio di teologia dogmatica Il Dio di Gesù Cristo: «Una delle regole fondamentali per il discernimento degli spiriti potrebbe essere dunque la seguente: dove manca la gioia, dove l’umorismo muore, qui non c’è nemmeno lo Spirito Santo, lo Spirito di Gesù Cristo. E viceversa: la gioia è un segno della grazia. Chi è profondamente sereno, chi ha sofferto senza per questo perdere la gioia, costui non è lontano dal Dio del Vangelo, dallo Spirito di Dio, che è lo Spirito della gioia eterna».
Un concetto ribadito anche ne Il sale della terra: «La fede dà la gioia. Se Dio non è qui, il mondo è una desolazione, e tutto diventa noioso, ogni cosa è del tutto insufficiente. […] L’elemento costitutivo del cristianesimo è la gioia. Gioia non nel senso di un divertimento superficiale, il cui sfondo può anche essere la disperazione». Per dirla con Chesterton, maestro di umorismo, «la gioia è il gigantesco segreto del cristiano».
Prima da teologo e poi da Papa, Benedetto XVI ha insistito molto su questo punto, smentendo la grottesca immagina di “Panzer Cardinal” cucitagli addosso da qualcuno: «La gioia semplice, genuina, è divenuta più rara. La gioia è oggi in certo qual modo sempre più carica di ipoteche morali e ideologiche. […] Il mondo non diventa migliore se privato della gioia, il mondo ha bisogno di persone che scoprono il bene, che sono capaci di provare gioia per esso e che in questo modo ricevono anche lo stimolo e il coraggio di fare il bene. […] Abbiamo bisogno di quella fiducia originaria che, ultimamente, solo la fede può dare. Che, alla fine, il mondo è buono, che Dio c’è ed è buono. Da qui deriva anche il coraggio della gioia, che diventa a sua volta impegno perché anche gli altri possano gioire e ricevere il lieto annuncio».
Ecco il punto fondamentale su cui insiste molto papa Francesco: senza la gioia non si può uscire dalla Chiesa e da se stessi per andare nelle periferie del mondo. «La gioia», spiegava qualche tempo in un’omelia, «non può diventare ferma: deve andare. La gioia è una virtù pellegrina. È un dono che cammina, che cammina sulla strada della vita, cammina con Gesù: predicare, annunziare Gesù, la gioia, allunga la strada e allarga la strada».
La Chiesa simpatica e gioiosa, incarnata oggi da papa Francesco, non è una Chiesa mondana, che cerca l’applauso o di accattivarsi qualche simpatia a buon mercato ma una Chiesa che annuncia a tutti che la gioia è il primo e più coraggioso atteggiamento del credente perché deriva dalla fede, una fede che, come diceva Gilbert K. Chesterton parlando della sua conversione, «allarga la mente», perché «diventare cattolici non significa smettere di pensare, ma imparare a farlo».