“La migliore offerta” di Tornatore. Pensa la peggiore

David, Nastri e overdose d’incenso

Se questa è “la migliore offerta” del cinema italiano, verrebbe quasi da chiedersi quale sia la peggiore. Non perché l’ultimo film di Giuseppe Tornatore («La Migliore Offerta», appunto), così ampiamente omaggiato con David e Nastri (dodici riconoscimenti complessivi equamente divisi), sia un’irrimediabile schifezza. E’ semplicemente cinema talmente medio da essere mediocre, più dimenticabile di un bicchiere d’acqua, con quello spruzzo internazionale della star straniera (Geoffrey Rush) e dell’ambientazione mitteleuropea che lo rendono rassicurante come solo certe aspirine.

La scappellata verso Tornatore (ricordiamo che ai Nastri, in un’overdose d’incenso, è stato premiato anche il documentario sul regista siciliano «Giuseppe Tornatore – Ogni film un’opera prima») è l’indice della paura più evidente di un cinema che è giustamente terrorizzato dall’incertezza sul tax credit, che è incapace di intercettare le novità che pure ci sono portandole (anche attraverso la vetrina dei premi più mediatici) all’attenzione del pubblico, che celebra il già celebrato quando non i celebranti piuttosto che rivolgersi agli innovatori che magari da nuovi punti di osservazione (Roma con le sue ambientazioni è sempre meno presente a favore di nuove realtà in fermento) raccontano il nostro Paese.

Il film di Tornatore, dunque. Che ai Nastri batte «La Grande Bellezza», cui è accomunato da un filo rosso evidente (sono anche le produzioni più grosse del nostro autorialismo e meglio accolte nelle sale). Entrambi hanno per protagonisti due uomini non più giovani e non ancora vecchi, azzimati ed estetici, ugualmente improbabili e sfiatati, diversamente inutili e sussiegosi. I due film cominciano con i compleanni dei rispettivi protagonisti: l’arrivo della mezza età è un momento importante, comporta molti pensieri e non solo per la prostata, c’è la prima parte di vita che è ormai andata via e l’altra metà che si annuncia, così carica di delusioni e noia ma anche di speranze e inediti slanci e bla bla bla…

Se appena considerassimo certo retorico pascolismo che segna molta nostra produzione della nostalgia (il prolifico Avati su tutti), con questi Tornatore e Sorrentino si completerebbe definitivamente il quadro per così dire da maturandi, un po’ da terza liceo, del cinema italiano: Tornatore porta Svevo con la Trieste che da tempo gli piace tanto, Sorrentino il decadente d’Annunzio, e dopo gli esami tutti in vacanza.

In genere i maestri, oltre che un esempio, esercitano un’opera di guida verso i giovani, aiutandoli a produrre, promuovendone i valori, scommettendo su di loro. Pratiche da cui i nostri – la gran maggioranza dei nostri – si tengono accuratamente lontani. Esecutori spietati del ghe pensi mi (soggettisti, sceneggiatori, registi, montatori e via accentrando), chiusi in una bolla di consenso semiautomatico, confortati da sicurezze produttive ormai acquisite (naturalmente grazie al successo delle loro opere precedenti: è doveroso sottolinearlo), sono affratellati da una discreta chiusura verso il mondo, da un autobiografismo delle loro passioni riversato nelle opere pretendendo quasi che diventi cifra stilistica, da una assestata tendenza al servillismo (nel senso di Toni: al quale è stato dedicato un Nastro speciale per la bellezza di non uno, non due, non tre, ma addirittura quattro ruoli). Insomma hanno tecnica, hanno stellette appuntate sul bavero, anche una certa fama, un nome noto pure al di fuori dei nostri confini. Resta inevasa una domanda: ricominceranno a fare cinema, o continueranno a fare film?

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